Psicodinamica dei Tre Cervelli e Visione Olistica

L’uomo è un animale a tre cervelli (rettile, emotivo, logico), tre centri decisionali, filogeneticamente ordinati e caratterizzati da una complessità crescente. Altrove (La Fine Del Razionalismo) ho accennato a tale struttura definendola una piramide rovesciata con il vertice piantato nel cervello rettile. Qui, intendo affinare tale descrizione con l’intento di analizzarne in dettaglio taluni aspetti salienti.

Più specificamente, ciò che m’interessa chiarire sono le conseguenze di carattere psicodinamico che la relazione gerarchica fra i Centri necessariamente induce soprattutto a livello conoscitivo. Tratterò, quindi, ogni singolo Centro come un individuo a se stante e, in ossequio alla metafora della piramide, i rapporti fra Centri stessi come prevalentemente gerarchici. Prevalenza che promana principalmente da due fattori: anzitutto e in modo immediato dalla coazione a sopravvivere, ossia dalla direttiva che nel sistema possiede la priorità più elevata, nonché e in seconda istanza dall’istinto di riproduzione.

Com’è noto, quella appena descritta è nostra la parte animale. La legacy che l’uomo trae dall’evoluzione e che, in seguito allo sviluppo del neopallium (neocorteccia, centro intellettuale), ha originato l’unicum costituito dalla nostra specie. La questione è in parte trattata in altri lavori, ma la riprendo brevemente qui per evidenziare la psicodinamica dei Centri, ossia di come essi interagiscano dinamicamente generando comportamenti sostanzialmente predicibili.

Prendiamo come esempio, il bisogno di raggruppamento che porta gli individui a unirsi in gruppi sociali e che è generato da almeno due tipi di pulsioni primitive:

  • L’istinto di sopravvivenza, pulsione rettile per eccellenza e che, nel caso di specie, si riassume nel motto “l’unione fa la forza”;
  • La ricerca di uno scopo che dia un senso all’esistenza, pulsione puramente intellettuale.

È evidente, quindi, che già questo livello d’analisi suggerisce l’esistenza di una contaminazione fra i Centri poiché queste due pulsioni sono entrambe presenti e, di conseguenza, agenti nel medesimo tempo. In realtà, si la contaminazione è assai più profonda poiché, ad esempio e per restare nella dimensione sociale, se essa è di matrice prevalentemente intellettuale, a sua volta non può fare a meno di esprimersi anche su gli altri due livelli, ciascuno come espressione del fondamentale schema di comportamento (behaviour) del rispettivo Centro.

Così, quando la ricerca di uno scopo è influenzata dal rettile, la pulsione generata è molto individualista, in termini psicodinamici e tipicamente sarà la ricerca di un amplesso, quale che sia, dolce o brutale dipenderà a sua volta dalla specifica contaminazione del singolo sistema individuale.

Viceversa, il cervello emotivo spinge l’individuo verso rapporti affettivi, tipicamente di coppia, di talché avremo la ricerca di un rapporto stabile, a lungo termine, dotato di un progetto. Anche qui, la capacità di realizzare un tale obiettivo dipenderà da eventuali e altri fattori contaminanti.

Infine, il Centro intellettuale, disturbato com’è dalle emozioni, sposterà l’individuo verso relazioni sociali più ampie in termini di numero delle persone coinvolte e, all’interno delle quali, l’affettività sia rigidamente controllata. E qui, la contaminazione potrà dirigere il singolo verso gruppi di potere o di solidarietà sociale o di cultura fisica.

La conseguenza più immediata e interessante, quindi, è che il singolo individuo può essere descritto come l’unione di tre individui, profondamente diversi fra loro e tenuti insieme dalla suddetta prevalenza gerarchica, nonché da una serie di legami morbosi fra gli stessi.

Si consideri, ad esempio, il caso di un individuo la cui priorità assoluta di sopravvivenza dell’organismo sia unita a una predisposizione genetica che lo sospinge verso l’amore universale. In uno scenario come questo, accade una cosa curiosa: l’individuo da una parte facilmente ossequierà la piramide del potere costituito (che vede rispecchiata in se stesso, ma capovolta), mentre dall’altra, in modo altrettanto naturale, coltiverà l’orticello della propria individualità che lo sospinge in una direzione del tutto opposta.

Stiamo parlando di un atteggiamento variamente conflittuale che, secondo le strutture individuali coinvolte, da una parte porta l’individuo a omologarsi, mentre dall’altra lo muove alla realizzazione della specifica autonomia determinata dal suo patrimonio genetico. Credo sia facile vedere come un siffatto stato di cose, giusta la presenza di determinati fattori, possa essere capace di produrre sofferenza nevrotica.

Nella sostanza, in ciascuno di noi vi sono tre individui in conflitto costante, ciascuno con le proprie, specifiche direttive. Uno di questi è, in modo nativo, più forte degli altri due e, di conseguenza, s’impone trovando limite assoluto e invalicabile nella sola coazione a sopravvivere.

Il punto, quindi, starebbe in un rapporto di proporzionalità inversa fra il livello di contaminazione dei Centri e la capacità di controllo dell’io osservatore sul sistema individuale. Più i centri sono vicendevolmente contaminati, ossia più l’individuo manifesta tratti morbosi, meno avrà una volontà propria e, a proposito del problema in discorso, meno sarà capace di una visione olistica.

Il fatto, in ambito psicodinamico, è rilevante giacché la contaminazione ha un prezzo elevato in termini d’energia impiegata. Infatti, più macchine entrano in gioco rispetto a un qualunque problema, maggiore sarà l’energia spesa per gestirlo.

Non solo e qui arriviamo al punto, stante l’esorbitante costo di funzionamento di un sistema siffatto, l’io osservatore sarà portato inevitabilmente verso una soluzione minimale, ossia tratterà il singolo problema esclusivamente con il Centro dominante, dimenticando tutto il resto.

Questo ha un significato assai semplice, ossia che il tipo intellettuale tenderà verso soluzioni logiche, quello emotivo declinerà ogni cosa in senso emozionale e così quello fisico. Il risultato inevitabile sarà l’impossibilità per ciascuno di giungere a una visione olistica, ossia a uno sforzo conoscitivo che “vada oltre il proprio naso”.

Ciò spiega bene i problemi di comunicazione fra gli individui, nonché la loro naturale inclinazione a formare gruppi omogenei, ossia gruppi di persone appartenenti tutte al medesimo tipo. Altresì, spiega bene il perché i singoli individui durino così tanta fatica a “mettersi nei panni” di qualcun altro, ossia a capire punti di vista diversi da quello che è il loro specifico modo di declinare l’esistenza.

Da ciò, si badi, discendono conseguenze davvero importanti. Su tutte, l’estrema facilità con la quale è possibile manipolare i singoli individui. L’unica cosa che serve conoscere è il tipo dominante, dopodiché sarà tutta in discesa perché basterà muovere la leva giusta per ottenere la risposta voluta.

Se quanto appena visto può apparire preoccupante, a mio avviso, l’aspetto forse più pernicioso di un tale stato di cose è costituito dalle difficoltà che genera a livello conoscitivo e questo in ogni campo del sapere, senza alcuna eccezione.

In psicologia, ad esempio, il quadro attuale è, a grandi linee, dominato dall’impronta cognitivista, ossia da un modello totalmente intellettuale. Questo ha fatto sì che, nel mondo, vi siano squadre di ricercatori che spendono tempo e quattrini per determinare, grazie alle moderne tecniche di osservazione in vivo dell’attività cerebrale, aspetti specifici del comportamento umano perdendo sistematicamente di vista il funzionamento della macchina nella sua complessità e generando, di conseguenza, risposte, a più livelli e nella migliore delle ipotesi, del tutto inutili.

Si consideri il seguente articolo, apparso su lescienze.it il febbraio scorso: http://ow.ly/ZVKmo

L’articolo illustra “i risultati di una ricerca che ha ripreso e approfondito gli studi sul conformismo condotti negli anni sessanta da Stanley Milgram, dimostrando che l’obbedienza riduce l’attività delle aree cerebrali che valutano gli effetti delle azioni compiute”. In particolare, la ricerca dimostrerebbe che “quando qualcuno impartisce un ordine, chi lo esegue percepisce un senso ridotto di responsabilità delle proprie azioni e delle loro conseguenze”.

La conclusione alla quale giungono i ricercatori è la seguente: “gli stati dovrebbero impegnarsi, da un lato a  promuovere a livello educativo lo sviluppo del senso di responsabilità e la capacità di controllare le proprie azioni e, dall’altro, a varare leggi che permettano di sanzionare più gravemente chi ha la facoltà di impartire ordini e direttive, così da dissuadere da possibili abusi”.

A mio avviso, l’articolo evidenzia molto bene quanto e come l’ubriacatura cognitivista se, da un lato, riesce a far luce su singoli atteggiamenti, dall’altro si perde il contesto giacché dimentica (non è metaforico) la struttura tripartita che caratterizza l’animale uomo. Che l’uomo sia un animale a tre cervelli è una verità fisiologica ed è talmente ingerente, rispetto a qualsiasi comportamento umano, che ignorarla conduce inevitabilmente a letture fuorvianti, quando non ipocrite. E’ più che evidente, infatti e in ordine alla ricerca in oggetto, che l’organizzazione, quale che sia, offre al singolo sostentamento e protezione in cambio di obbedienza e questo per il rettile è più che sufficiente.

Affermare, quindi, che chi “esegue l’ordine percepisce un senso ridotto di responsabilità delle proprie azioni e delle loro conseguenze” è fuorviante poiché, in realtà, la gravità dell’atto è percepita nel modo corretto, solo che è scaricata sull’organizzazione che, a quel punto, paga all’individuo il prezzo della sua obbedienza, manlevandolo dalla responsabilità individuale.

Direi che basta ricordare i numerosi video offerti in questi anni dalla rete e aventi a oggetto l’omicidio di cittadini statunitensi, solitamente di colore, per mano di poliziotti (bianchi) con modi che, definire atroci, appare eufemistico. Sembra quasi un pattern: il poliziotto intima al soggetto di tenere un certo comportamento, il soggetto rifiuta di obbedire e, solo per questo, è ucciso. Omicidio a sangue freddo.

Qui, a mio avviso, il cortocircuito fra rettile ed io osservatore è evidentissimo. Sarebbe, a riguardo, interessante studiare le procedure d’addestramento dei reparti di polizia che operano nelle città americane (procedure, con ogni probabilità e conoscendo gli anglosassoni, rigidamente standard) per valutarne l’efficacia reale soprattutto riguardo alla probabile costruzione (forse potremmo dire compulsione) di personalità alessitimiche. Sì, perché è piuttosto trasparente il fatto che un individuo essenzialmente affine al Mahatma Gandhi non sia tendenzialmente portato a presentare domanda di assunzione in polizia. Ne consegue, che l’organizzazione, rispetto alle sue prime leve, parte già da un target auto-selezionato e sul quale è facile lavorare in modo da deprimere, a livello inconscio, le già flebili istanze emotive, con il risultato di formare degli individui per i quali uccidere è lecito poiché l’organizzazione, non solo garantisce loro sostanziale impunità, ma li paga pure.

Questo, se fate caso, è perfettamente coerente con la visione rigidamente gerarchica che promana dal rettile e in base alla quale esiste un interesse superiore e che non può mai essere messo in discussione: quello della sopravvivenza del singolo individuo e, conseguentemente, dell’intera specie. Qui, inoltre, lo schema proposto all’inizio è perfettamente reso dalla commistione della pulsione rettile a quella che sospinge verso la ricerca di uno scopo (la sicurezza di tutti i cittadini residenti, salvo quelli che non ubbidiscono).

Tutto questo non determina, come afferma la ricerca linkata, “un senso ridotto di responsabilità delle proprie azioni e delle loro conseguenze”, bensì lo azzera completamente giacché lo sposta in toto sull’organizzazione e il tutto in conformità ai meccanismi complessi che derivano in modo diretto dalla contaminazione dei centri. Contaminazione che, è evidente, opera sia sull’osservato, sia sull’osservatore provocando, in quest’ultimo caso, incomprensioni profonde e, infine, danni rilevanti in termini di scelte tattiche e strategiche.

Si consideri, infatti, la conclusione esposta dall’articolo linkato: “gli stati dovrebbero impegnarsi, da un lato a  promuovere a livello educativo lo sviluppo del senso di responsabilità e la capacità di controllare le proprie azioni e, dall’altro, a varare leggi che permettano di sanzionare più gravemente chi ha la facoltà di impartire ordini e direttive, così da dissuadere da possibili abusi”.

Si tratta di una conclusione ipocrita poiché formulata ignorando del tutto il meccanismo reale alla base del comportamento osservato. Non esiste alcun senso di responsabilità per il rettile e non esiste controllo che funzioni davanti alla scelta della sopravvivenza. Il poliziotto, infatti, se attua comportamenti non previsti e/o accettati dal dipartimento in quella specifica situazione, ottiene un licenziamento. E per il rettile questo equivale alla morte.

Ecco, tutto ciò dovrebbe poter dare un’idea della reale dimensione del problema: senza una visione olistica, ossia senza uno sforzo individuale teso a distruggere le macchine psichiche che impediscono l’uso contemporaneo dei tre cervelli che abbiamo in dotazione, l’atto conoscitivo genera mostri. E questo è sempre vero.

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