Gli Immortali – Il Distacco

Guerriero di Capestrano

Non vi sono bambini fra noi. A quanto pare, nessuno dei cuccioli gliel’ha fatta a saltare. Al contrario, sono in molti quelli che hanno lasciato dei figli piccoli a morire soli, sulla vecchia terra. Di seguito, il colloquio che ho avuto con un uomo che, al momento del salto, aveva trenta anni e due bambine di cinque e otto anni.

Io – Quale nome avevi prima del salto?

Lui – Sergio

Io – Raccontami della tua situazione prima del salto. Dove vivevate?

Sergio – A Milano. Avevamo una casa in via Benedetto Marcello, in un palazzo con la portineria. Un appartamento bello grande dove stavamo in quattro, mia moglie Ines, le nostre due figlie Claudia e Giovanna ed io, oltre al nostro gatto.

Io – Una vita tranquilla, insomma.

Sergio – A Milano, parlare di vita tranquilla è forse un po’ eccessivo. Tuttavia, sì, almeno in base ai parametri della creazione a quattro dimensioni, la situazione era definibile come buona. Ines lavorava in IBM, io in ospedale e le bambine le portavamo a una scuola elementare a un isolato da casa. Avevamo una domestica che veniva ogni giorno, sia per riassettare casa, sia per andare a prendere le bambine all’uscita da scuola. Eravamo molto uniti ma anche consapevoli del fatto che le cose, a livello globale, stavano peggiorando un giorno dopo l’altro. Ricordo che negli ultimi tempi il lavoro era diventato davvero molto difficile per via dello stress eccessivo e la sera, a casa, sempre più spesso sperimentavamo angoscia e preoccupazione.

Io – Quindi anche tua moglie era consapevole.

Sergio – Sì, anche se non come mi sarebbe piaciuto. A parte le bambine, lei era piantata sul suo lavoro, che amava molto. Era nata per fare la programmatrice e, di conseguenza, voleva credere nel sistema senza il quale, diceva, il suo lavoro avrebbe perduto ogni significato. Questo la portava a essere forzatamente ottimista e a ripetere che il sistema (riferendosi all’eco-sistema) era fatto per essere stressato e che, quindi, alla fine avrebbe risposto adattandosi.

Io – Eravate credenti?

Sergio – No, non eravamo credenti, ma neppure avremmo potuto definirci atei. Ci definivamo agnostici e pragmatici. Tuttavia e a differenza di Ines, io non ero disposto ad arrendermi al fatto di essere nulla più di una scimmia parlante. Ero sempre stato profondamente convinto di possedere qualcosa in più, qualcosa che assomigliava alla possibilità di vincere la morte. Ines, spesso mi prendeva in giro per questo ed io ridevo con lei delle sue battute, ma dentro di me conservavo la mia certezza.

Io – E le bambine?

Sergio – Claudia era uguale a sua madre, concreta, naturalmente portata al calcolo, eppure dolcissima. Giovanna, invece, era molto più simile a me, ribelle e sempre proiettata in avanti. Stavo bene con loro, le abbracciavo spesso. La sera stavamo in casa, insieme e quasi ogni fine settimana andavamo fuori città.

Io – Perciò quando lo sdoppiamento ebbe inizio come reagiste?

Sergio – All’inizio non capimmo. Nessuno capì, in realtà. Tuttavia io vidi mia moglie cambiare quasi subito. Fu come se qualcuno le avesse staccato la spina, trasformandola in un essere cupo. Non ha mai più riso da quell’istante. Mai più. Le bambine ci guardavano senza capire. Ci guardavano per qualche attimo e poi tornavano a giocare ed io mi sentivo in colpa perché vedevo Ines così scura e depressa, mentre per me era tutto diverso. Sentivo cose che non avevo mai avvertito prima. Emozioni nuove e una specie di forza che espandeva ogni giorno di più, dal centro del mio corpo e verso l’esterno. Allora, a turno le abbracciavo tutte perché sentivo che era l’unica cosa che avesse senso fare. Non sapevo perché lo facevo, ma, almeno le piccole, mostravano beneficio perché sorridevano. Ines, invece, no. Avevo visto molti soggetti depressi durante gli anni di lavoro in ospedale, perciò sapevo che mia moglie stava precipitando dentro una depressione sempre più profonda. Un giorno, le chiesi se aveva considerato l’eventualità di andare da un professionista, per farsi aiutare. Ricordo che, per un lungo attimo, mi guardò come si guardano gli sciocchi e, quindi, esclamò: “Perché?”. Fu in quella circostanza che ebbi la certezza che la fine del mondo era arrivata.

Io – Che accadde quel giorno?

Sergio – Accadde che mi ritrovai per la prima volta di fronte all’evidenza che, in qualche modo, io sapevo di poter risolvere quella situazione per me stesso, ma che non sarei mai stato capace di farlo anche per loro e, non appena lo realizzai, le mie gambe cedettero e caddi a terra. Mi sentivo come un pupazzo al quale erano stati tagliati i fili che lo sostenevano. Un’angoscia mostruosa m’invase lo stomaco. Era come metallo liquido, non riuscivo quasi a respirare. Così, appena riuscii a riprendere un minimo di controllo sul mio corpo, uscii da casa e presi la macchina. Per prima cosa, non avendo modo di gestire quell’angoscia da solo, andai in ospedale e rubai dell’ossicodone. Poi, guidai per ore, fermandomi a volte per gestire l’angoscia che, a tratti, riusciva a bucare la chimica dell’oppioide, facendomi urlare di dolore e disperazione. A notte fonda, mi ritrovai in una condizione limite, ero uno straccio, mi sentivo sfinito e a malapena riuscivo a muovere le braccia. Mi addormentai, per svegliarmi qualche ora dopo nel parcheggio di un autogrill.

Io – Tornasti a casa, dopo?

Sergio – Sì, ero ancora parecchio scosso, ma trovai il coraggio e la determinazione per tornare dalla mia famiglia. Arrivai verso sera, erano tutte a casa e mia moglie mi guardò in modo strano, mentre le bambine volevano essere abbracciate. Mi veniva da piangere, eppure c’era una parte di me che non smetteva d’essere euforica. Tanto che, a un certo punto, pensai d’aver perduto la ragione. Ogni tanto, dovevo ritirarmi in bagno per mascherare i conati di vomito. Era come se qualcosa mi scuotesse dal profondo, facendo a pezzi tutto ciò che trovava sul suo cammino.

Io – E poi?

Sergio – Poi arrivò la nebbia e tutto divenne più difficile.

Io – Anche con i tuoi?

Sergio – Sì. Le bambine cominciarono a regredire, nel senso che iniziarono a manifestare comportamenti che avevano abbandonato da qualche tempo. Un giorno, trovammo la piccola con il succhiotto in bocca. Lo aveva recuperato da un cassetto nel quale era rimasto da almeno quattro anni, mentre Claudia prese a bagnare il letto. Mia moglie non disse una parola, si limitava a tenerla pulita, ignorando il fatto ed io feci lo stesso. Le cose, quindi, iniziarono ad avere un peggioramento quotidiano, tanto che cominciai a sentirmi in pericolo. Vedevo che tutto stava morendo e che non c’era alcuna speranza di cambiare questo fatto. Così, mi mascherai. Finsi la tristezza che non ero capace di avere perché, ormai, avevo capito che qualcosa sarebbe accaduto. E, infatti, accadde.

Io – Vedesti il Doppio.

Sergio – Sì. E fu liberatorio nel senso più profondo e vero del termine. Fu come svegliarsi da un incubo. Quando accadde, ricordo che ero nel mio studio, da solo. Stavo lavorando a un file di testo, cercando di descrivere ciò che stava accadendo, quando avvertii il bisogno di alzarmi e uscire sul balcone. E lì, lo vidi. Non so dire l’emozione che provai, ma so che piansi e senza riuscire a fermarmi. Solo dopo un bel po’, mi ripresi e corsi a cercare le bambine. Claudia stava, assieme a sua madre, fissa davanti la tv. Giovanna giocava su una copertina con delle bambole. Chiesi a tutte se avessero voluto seguirmi sul balcone, ma m’ignorarono. Dovetti rifugiarmi in bagno, perché sentivo che qualcosa mi stava uccidendo. Fu lì che scelsi. Lacerato dal dolore, scelsi di andare verso quella visione. E, ancora adesso, non lo so come ho fatto.

Io – Saltasti allora?

Sergio – No, ci misi un po’. Qualche giorno o qualche settimana, non lo so. Ricordo, però, che da quella sera ogni cosa mutò. Da quella sera, come posso dire, divenni spietato. Come se, in quell’occasione, avessi definitivamente accettato il fatto di non poterle aiutare in alcun modo. Sarebbero morte insieme al pianeta, in ogni caso. Così, mi ritirai in me stesso. Divenni sempre più taciturno e ritirato, di fatto, in quei giorni mi allontanai per sempre da loro e da chiunque altro. Fino all’istante nel quale saltai.

Io – Come avvenne?

Sergio – Come per tutti noi. Mi aprii senza alcuna paura. Non avevo più niente che mi legava, perciò mi aprii al canto di Gaia e, un istante o un’eternità dopo, mi ritrovai qui.

Io – Sei felice di averlo fatto?

Sergio – Sì, ma ci penso ancora. Almeno una parte di me lo fa ancora.

Io – Ti senti in colpa.

Sergio – Sì, anche se qui, la colpa sembra aver acquisito una dimensione diversa. Credo dipenda dall’enormità del compito che ci attende e davanti alla quale ogni cosa tende a scomparire. Più passa il tempo, maggiore diventa la mia consapevolezza rispetto a tutto questo e più il senso di colpa cambia. In realtà, si stacca dalla mia storia personale per diventare ciò che è in realtà, mentre io stesso divento più fluido. Infine, è proprio come hai sempre descritto, si tratta solo di fluidità. Infatti, vedo bene che il mio senso di colpa vive esclusivamente su una parte di me che mantiene una certa cristallizzazione, una cosa destinata ad attenuarsi sempre più, sino a scomparire per sempre. Almeno, lo spero.

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