Il Filo del Rasoio

Premessa

L’intento di questo lavoro è connotare in modo efficace (e, possibilmente, breve) l’insieme di conoscenze denominate Filo del Rasoio, cercando di fornirne una visione globale anche, eventualmente, confrontandolo con altre esperienze filosofiche. A tal proposito e di seguito, mi riferirò al Filo del Rasoio semplicemente come Filo evitando, per quanto possibile, i riferimenti alla mia storia personale e cercando di presentarlo per ciò che è in realtà: un corpus autonomo e a se stante, caratterizzato da tratti assolutamente singolari e nuovi rispetto a qualunque altra realtà coesistente (o preesistente). Mi sentirei, altresì, di chiedere al lettore una certa comprensione per le eventuali sfumature indulgenti che, credo inevitabilmente, troverà sparse nel testo. Del resto, il Filo, almeno nella sua attuale forma, è una mia creatura e, come si dice a Napoli: i figli so’ piezz e core.

Storia

È difficile stabilire un istante preciso nel quale porre la nascita del Filo. Volendo individuare un capostipite, forse potremmo affermare che questo è Lucy (Eva), ossia la femmina di Homo Sapiens che, per prima, ingoiò dei carpofori psicoattivi. Tuttavia, non tornerò sull’argomento perché l’ho già trattato altrove. Altresì, indicare nomi e biografie d’individui che possono avere variamente caratterizzato il periodo postdiluviano, spingendo in diverso modo l’umanità verso la libertà, sembra più un lavoro da enciclopedisti ed io non lo sono per nulla.

Per quel che ne so, ogni individuo fatto oggetto di tortura o assassinio nel corso dei millenni a causa delle sue idee è stato, in qualche modo, portatore del Filo, quindi e in essenza, il Filo è descrivibile come quello stato dell’essere, variamente declinato durante il passato da individui diversi, che scaturisce dal desiderio di libertà. Un insieme di pulsioni generate da Rosso, la parte prometeica dell’uomo, ossia la parte che spesso lo spinge a fare cose che, diversamente, non farebbe.

Ovviamente, quello appena descritto è il motore il quale, proprio perché tale, non fa altro che premere sulla Totalità psichica per farla muovere in una determinata direzione, come a dire che un individuo, mosso implacabilmente dal desiderio di libertà, vive il suo personale dramma al quale è inevitabilmente legata una particolare, soggettiva descrizione (infine, reale causa del dramma stesso). Così, nel corso dei millenni, sono nati gli insegnamenti più diversi, le idee più bislacche e, soprattutto, quelle più pericolose. L’alchimia ne è un esempio, ma anche l’intera tradizione esoterica la quale, a sua volta, è fatta di numerose descrizioni, frutto dell’esperienza di singoli individui. Il problema, se volete, è che, per un tempo molto lungo, tutte queste descrizioni hanno continuato a soffrire del limite esiziale costituito dall’idea di “dio”. Un giogo concettuale che ha impedito a ciascuno di questi “pezzi di sapere” di pervenire a una forma sufficientemente complessa e raffinata. Questo perché “dio” si è posto come limite insuperabile e, di conseguenza, esiziale per ogni autentico “processo conoscitivo”.

Per liberare il sapere, dunque, “dio” doveva morire. Ed è esattamente ciò che è accaduto durante il Novecento. Per la Mente Collettiva, il Novecento è stato un secolo gravido d’istanze distruttive che hanno agito su diversi livelli. Da Heidegger a Bukowski, da Marx a Bakunin, da Helena Petrovna Blavatsky ad Aleister Crowley, da Aldous Huxley ai fratelli McKennna, passando per i padri della meccanica quantistica e attraverso la rivoluzione sessuale, il Novecento è stato, grazie al suo profondo nichilismo, il martello della Mente Collettiva la quale non ha avuto altra possibilità che quella di soccombere sotto i suoi colpi, lasciando sul campo solo un cumulo di macerie in mezzo alle quali, però, sono fioriti i germogli di un sapere sconosciuto, perché da sempre ferocemente combattuto (ci sarebbe da citare Nietzsche, ovviamente, anche se non fa parte del novecento).

Sono stati tre uomini (altrove, li ho chiamati “cavalieri”) che hanno voluto e potuto, grazie alla processanda “morte di dio”, dare inizio a una formalizzazione davvero importante del sapere che, nei millenni, era andato sedimentandosi attorno all’idea di libertà. Carl Gustav Jung, Georges Ivanovich Gurdjieff e Carlos Castaneda principiarono la distillazione, ciascuno nel proprio campo, di un sapere nuovo, realmente potente e profondamente eversivo. Il sapere sul quale ho edificato il Filo portandolo, per quel che posso vedere, a completamento.

Vorrei fosse ben chiaro che darò per letti alcuni degli scritti di questi tre signori. Nel caso di Jung, vista la vastissima produzione, almeno del libro dal titolo “Gli Archetipi e l’Inconscio Collettivo”. Nel caso di Gurdjieff, vista la oggettiva non leggibilità dei suoi scritti, dei lavori del suo divulgatore: P. D. Ouspensky (“La Quarta Via” e “Frammenti di un Insegnamento Sconosciuto”). Nel caso di Castaneda, di tutti gli scritti almeno sino a “L’Arte di Sognare” compreso (quelli successivi sono privi di valore). Ciò comporta che, a proposito delle eventuali vicende concernenti i tre cavalieri, riterrò me stesso libero dall’obbligo di produrre “note” di spiegazione dell’argomento trattato. In buona sostanza, l’invito è, nel caso non l’aveste già fatto, a leggere (o rileggere) quelle opere.

Struttura

Il Filo è astrazione. Ciò che questo sostantivo descrive è un gioiello dalle diverse facce, un concetto polimorfico, se volete, capace di funzionare su ciascuno dei diversi livelli nei quali un oggetto o un’azione possono esistere e/o compiersi. Ad esempio e riguardo a uno specifico corpus di conoscenze, com’è il Filo peraltro, l’astrazione determina, anzitutto e a livello più grossolano, la mancanza di una struttura variamente articolata. Questo, molto banalmente, vuol dire che non esiste una “scuola” e nemmeno dei “maestri” che insegnino. Non è un caso se si chiama Filo del Rasoio, al contrario, si chiamerebbe “Via del Baliatico” o “Manina del Buon Consiglio”. No, qui non esistono “consigliori” variamente interessati. Qui esiste solo il singolo individuo davanti a se stesso. In questo senso, il Filo astrae da qualunque struttura e dall’inevitabile pesantezza che la caratterizza.

D’altro canto e considerata la matrice totalmente auto-conoscitiva del Filo, in questo contesto l’astrattezza spiega un ulteriore aspetto, del tutto peculiare, imponendo la necessità di uno sforzo costante, da parte di chi lo percorre, di azzerare ogni meccanismo proiettivo, giacché la proiezione di contenuti inconsci è la strada certa per fallire. Accade, infatti, che nel momento esatto nel quale un individuo decide di compiere il decisivo passo in direzione dell’introspezione e della conoscenza di sé, quel medesimo individuo stabilisce di non avere più paura del proprio potere creativo (cfr. Castaneda dove la paura è il primo nemico dell’uomo di conoscenza). Questo è un fatto enorme poiché, esattamente in quell’istante, il soggetto reclama quel medesimo potere. Ed è proprio questo fatto che espone l’individuo al supremo pericolo derivante dall’inflazione psichica la quale dipende in modo diretto dal meccanismo proiettivo poiché, nell’esatto istante nel quale la paura è vinta, l’individuo diventa lucido e, sol per questo, capace di gestire porzioni sempre maggiori del proprio potere creativo. Ecco, da qui al delirio nel quale l’individuo diventa il “nuovo messia” il passo è brevissimo. Ciò comporta che sia l’astrattezza sia il distacco sono le uniche garanzie di sanità mentale e, di conseguenza, di durata sul Filo del Rasoio.

In Gurdjieff, l’astrazione zoppica e, infatti, egli fonda una “scuola”. Fra i tre, è l’unico a non possedere titoli accademici, tuttavia e proprio per questo, è in grado di costruire una descrizione realmente singolare e con tratti che, rispetto alla dimensione psicologica degli individui, lo portano a una conoscenza dell’uomo senza precedenti. Egli afferma più volte che tale conoscenza deriva da antiche dottrine apprese in “oriente”. In realtà, in “oriente” non esiste nulla di simile alla sua descrizione. Ritengo, perciò, questa sua scelta una conseguenza diretta proprio del senso d’inadeguatezza derivante dalla cennata assenza di titoli e del conseguente bisogno di accreditarsi, in occidente, come “sapiente”. In effetti, in Gurdjieff l’astrattezza paga un prezzo alto a questo livello di conflitto soggettivo non risolto.

In Jung, l’astrazione c’è ma è celata perché il grande svizzero aveva un problema molto serio, determinato dalla sua posizione all’interno della comunità scientifica la quale non gli avrebbe mai consentito di andare oltre determinati limiti concettuali. Questo lo costringe (non so quanto consapevolmente) verso la pesante teorizzazione chiamata Inconscio Collettivo e che è caratterizzata da oggetti altrettanto pesanti: gli archetipi. Nel mondo della ragione, quando qualcosa è trasportato, necessariamente dev’esserci qualcosa che lo trasporta (la luce dai fotoni, le patate dal carro del contadino, le forze della psiche dagli archetipi). Viceversa, si precipita nel ridicolo. Qualcuno sa quanto pesa il grande acceleratore di particelle del CERN? Certo non quanto il prezzo che Jung ha dovuto pagare in termini d’astrattezza e di conoscenza reale.

L’astrazione, infine, è un concetto sul quale lo stesso Castaneda insiste molto, soprattutto nella sua produzione più tarda ed è molto evidente che lo fa con il fine preciso di uscire dalle secche di una visione stregonesca troppo legata, a livello di Mente Collettiva, a una ricerca egoica (e autodistruttiva) del potere. Sul risultato di tale sforzo potremmo discutere a lungo, ma non in questa sede.

Il punto è che, partendo da una posizione di assoluto pragmatismo (Gurdjieff) e transitando attraverso una teorizzazione, ancorché pesante, certamente rivoluzionaria (Jung), il Filo approda all’astrazione degli insegnamenti del viejo nagual (sulla reale esistenza del quale non spenderò parole perché non ha alcuna rilevanza in ordine all’argomento trattato) e che generano un’architettura tanto leggera, quanto potente.

L’altra fondamentale evoluzione che, a mio avviso, è possibile individuare nei tre autori è il rapporto con l’idea di “dio”.

In Gurdjieff tale idea è ancora, almeno in parte, presente benché in una forma solo cennata. Questo è vero soprattutto a proposito dell’idea di “assoluto” (Mondo 1). Non che il Greco Nero abbia speso tempo ed energia nel coltivare un’idea di “dio”, questo no. Tuttavia egli disegna una cosmogonia molto precisa e afferma, in modo inequivoco, che l’uomo, nella sua azione di auto-liberazione, non può comunque oltrepassare i limiti del “sistema solare”. Che cosa abbia voluto significare con quest’affermazione non c’interessa tanto quanto il fatto, molto evidente, che il porre dei limiti a ciò che l’uomo può fare vuol dire presuppore, in ogni caso, l’esistenza di qualcosa che sta sopra l’uomo stesso (Mondo 1, appunto). Tuttavia, Gurdjieff, a proposito dell’argomento “dio”, è fortemente non confessionale e questo, visto ciò che tratta, è da considerarsi già un drammatico passo avanti.

Mi rendo conto che sostenere altrettanto per Jung può sembrare più difficile. Eppure, a mio modo di vedere e soprattutto nella prima parte della vita, lo psichiatra assume un atteggiamento profondamente nichilista verso l’idea di “dio”. I Septem Sermones ad Mortuos ne sono un esempio eclatante anche se è vero che, in età avanzata, li ripudierà etichettandoli come un “peccato di gioventù”. È anche vero, però, che la teorizzazione dell’Inconscio Collettivo avviene precocemente e che, come idea che estende in modo potente l’ambito d’azione umana, cozza in modo importante con l’idea stessa di “dio”. Non a caso, in ambito religioso Jung passa per eretico.

Con Castaneda l’idea di “dio” finalmente scompare del tutto e, nello stesso tempo e mercé la stregoneria, l’ambito d’azione dell’uomo si estende in modo vertiginoso grazie all’intuizione, assolutamente geniale, di dividere tutto il percepibile in tre ambiti, in rapporto fra essi da contenuto a contenente. Mi riferisco alla tripartizione fra Prima, Seconda e Terza Attenzione. Tripartizione che, nel linguaggio castanediano, indica posizioni del Punto D’Unione, ossia declinazioni specifiche del modo di percepire (ormai, affermo “di creare”) la Dualità da parte di ciascun individuo.

In buona sostanza, Castaneda trasfonde nella Mente Collettiva il livello di consapevolezza teorizzato dalla meccanica quantistica all’inizio del novecento e in base al quale l’unica cosa reale è il soggetto percepente, poiché l’oggetto percepito diviene una sua creazione, punto. La differenza, rispetto alla dimensione nella quale opera la meccanica quantistica, sta tutta nel fatto che il genio peruviano ha aperto le porte della percezione a chiunque, semplicemente, voglia andare oltre i propri limiti (percettivi). Da Castaneda in avanti, quindi, nessuno può reclamare in modo legittimo uno stato d’ignoranza rispetto alla reale portata dell’atto percettivo. Sì, avete inteso bene: nemmeno coloro che non l’hanno mai letto e questo proprio grazie all’Inconscio Collettivo. Cool, isn’t it.

Quasi trentacinque anni fa, dunque, questo era lo stato dell’arte: alcuni splendidi germogli, in un deserto sconfinato d’aridità intellettuale e spirituale, anzi e a mente delle atomiche sul Giappone, un autentico scenario post-nucleare ma con una concreta speranza di riscatto.

Core

È venuto il tempo di affrontare il mostro, ossia la parte più vera e spaventosa del Filo, la ragione per la quale i viventi, da sempre, dormono così profondamente e uccidono chiunque cerchi di svegliarli. E per farlo, scomoderò il Buddhismo.

Gautama Buddha, nato a Lumbini intorno al 566 a. c., fu un uomo di qualità davvero eccezionali. Monaco, filosofo e mistico indiano, proveniva da una ricca famiglia del clan dei Śākya. Ciò gli valse l’appellativo Śākyamuni (saggio dei Śākya). Non mi perderò nei dettagli sulla vita di questo gigante. Tuttavia e com’è noto, quel che fece, fu di fondare una religione che ancora oggi conta milioni di fedeli nel mondo, basata su una filosofia complessa e, per molti versi, davvero raffinata. Di tale filosofia, m’interessa la dottrina dell’anātman, vale a dire l’inesistenza dell’io individuale permanente che ora cercherò di descrivere succintamente.

Ogni fenomeno fisico e/o mentale (dharma) condivide tre caratteristiche: l’impermanenza (niente dura per sempre), la sofferenza (non penso abbisogni di spiegazioni) e il Non-Sé (anātman). Ora, se i primi due concetti possono apparire in certa misura logici e, in ogni caso, di facile comprensione, per il terzo le cose si fanno più complicate.

Se per atman, infatti, intendiamo ciò che in occidente è chiamata anima, l’”an” è un prefisso privativo che sostanzialmente la nega.

Questo è molto interessante, giacché costituisce, sul piano religioso, il punto di divisione vero fra oriente e occidente. Se, infatti, in occidente (e parlo indifferentemente di cristiani, di musulmani e di ebrei), l’aspirazione del fedele è di esistere per sempre in qualche sorta di “paradiso” (com’è composto un tale luogo, non ha alcuna importanza), in oriente, almeno per i buddhisti (e più tardi anche per gli induisti), ciò è escluso dalla dottrina dell’anātman.

In sostanza, si afferma che il Sé è il risultato di un processo di brama e attaccamento, qualcosa di totalmente illusorio, tanto da predicare la liberazione come processo inverso, ossia ciò che passa attraverso il non attaccamento al mondo delle illusioni. A questo fine, il concetto di Sé è tenuto separato da quello di persona. È curioso, in effetti, ma il Buddha separa l’anima imperitura (che nega poiché sarebbe mera illusione) dalla persona concreta e agente nel mondo sensibile, la quale sarebbe il risultato di cinque elementi (skanda):

  • Forma;
  • Sensazione;
  • Percezione;
  • Coefficienti;
  • Coscienza.

Se, a questo punto, il lettore ha iniziato ad avvertire un certo disagio, niente paura, quando si legge o si ascolta qualcosa di poco chiaro, è del tutto naturale. Altresì, pensare che chi riferisca così poca chiarezza abbia, a sua volta, le idee confuse, è altrettanto naturale (e, soprattutto, di solito esatto).

In proposito, devo dire che quando mi sono chiesto il motivo per il quale un così grande uomo avesse avvertito il bisogno d’infilarsi in un tale vicolo cieco, ho capito che l’unica risposta sensata doveva essere la paura.

L’intera storia dell’espansione progressiva della consapevolezza attraverso i millenni è determinata dal superamento (anch’esso progressivo) della paura. Ho analizzato l’elemento della paura in La Fine del Razionalismo definendola un tratto genetico derivante dalla necessità di mantenere la massima coerenza possibile nella descrizione dell’input sensoriale, attribuendo una tale necessità all’imperativo della sopravvivenza.

Tuttavia, esiste un livello più profondo di paura. Un livello legato al modo con il quale la Coscienza Creatrice sperimenta se stessa e che, se volete, può spiegare molto efficacemente qual è il vero motore della Danza Folle. Mi riferisco alla solitudine.

Per anni, al ritmo di tre o quattro volte l’anno, ho ripetuto una particolare esperienza notturna, senza mai riuscire a comprenderla sino in fondo. Mi svegliavo nel pieno della notte, ritrovandomi in uno specifico stato percettivo, talmente spaventoso da essere di fatto insostenibile. Tanto che, in quelle occasioni, dovevo alzarmi e camminare un po’, bere dell’acqua o fare qualunque cosa potesse riportarmi in uno stato di oblio rispetto a quel che avevo appena sperimentato.

Pian piano riuscii a vedere che, in quegli istanti, ero la Coscienza Creatrice e che questo toglieva semplicemente di mezzo l’illusione della molteplicità lasciandomi totalmente solo. Non credo di poter riuscire a rendere l’infinita, atroce disperazione che esiste a quel livello di Coscienza. Perché esiste. Qui e ora, solo che non ce ne accorgiamo poiché viviamo costantemente immersi nel sonno.

Il punto è che ciascuno di noi nel profondo lo sa. Ciascuno di noi sa che, in realtà, siamo illusione e Buddha lo vide senz’altro. Il suo problema fu che la Consapevolezza Collettiva non aveva ancora raggiunto la soglia che gli avrebbe permesso di vedere con chiarezza che l’Uno (raggiungibile tramite il Nirvana) è l’esatta faccia di quella disperazione.

Questo perché la Coscienza Creatrice è sola e, allo stesso tempo, è immortale. Altresì, Uno e Dualità sono i soli stati nei quali essa può esistere. Il punto è che nell’Uno la disperazione derivante dalla solitudine è talmente atroce che spinge la Coscienza Creatrice a dividersi per creare una molteplicità la quale, tuttavia, è illusoria e drammaticamente inconoscibile giacché ogni cosa è divisa nei suoi opposti. Interrogatevi per un solo istante, pensate che possa esistere qualcosa di più atroce di questo?

Buddha ci è arrivato vicino, ma la paura (che è comune a tutti noi), non gli ha permesso di vederlo completamente e questo ha tenuto lui stesso e tutti i suoi seguaci, dentro l’illusione che perdersi serenamente nel “tutto” fosse la soluzione (nel buddhismo nirvana significa estinzione, mentre nell’induismo, più precisamente nella Bhagavadgita, si parla di brahmanirvāṇa come estinzione dell’io nel Brahman).

Probabilmente, mai inganno fu più tremendo. Se, tuttavia, ricordate la bizzarra distinzione fra Persona (reale) e Sé (illusorio), allora dovreste poter vedere come, almeno una parte del Buddha (ancorché minoritaria), cercò istintivamente di fare l’unica cosa sensata: mantenere in essere l’illusione della molteplicità. Il punto è che, a quel tempo, nessuno era ancora giunto alla formulazione (anche solo come possibilità teorica) di un terzo stato di coscienza, ossia uno stato dell’essere diverso sia dall’Uno, sia dalla Dualità. Uno stato dentro il quale la molteplicità è conservata e, allo stesso tempo, ne è assicurata la comprensione totale. Questo da una parte libera la Coscienza Creatrice dall’orrore della solitudine eterna e dall’altra impedisce alla Dualità di divenire fonte di sofferenza (senso di colpa) per la Coscienze Separate poiché consente loro di capire ogni cosa.

Infine, anche qui è stata l’idea dell’esistenza di qualcosa che sta “sopra” l’uomo a gabbare Śākyamuni. Non è chiamato “dio” ma ciò non cambia per niente i termini della questione, giacché l’uomo è pensato come qualcosa di limitato e sostanzialmente “cattivo”, costantemente alla mercé di forze troppo grandi e che lo costringono alla sofferenza, tenendolo incatenato al processo di rinascita. Perciò, il nirvana è la via d’uscita da questo stato di sofferenza e l’Uno, l’assoluto indifferenziato è il luogo “superiore” e desiderabile al quale ambire grazie all’ascesi.

Il punto è che se le cose sono state così per millenni (sia in occidente, sia in oriente) oggi i risultati sono sotto gli occhi di tutti. L’oblio del fatto che siamo noi i creatori di tutto quanto esiste e che non c’è nulla di reale al di fuori o sopra di noi, ci ha impedito di andare in qualunque direzione con la conseguenza che oggi siamo quasi 7,5 miliardi di persone su un pianeta che non ce la fa più a sostenere la nostra follia.

Tuttavia e come detto sopra, quest’oblio trova la sua profonda giustificazione nel terrore assoluto generato dalla solitudine della Coscienza Creatrice. Qualcosa che, infine, solo un pazzo o un eroe può pensare di approcciare.

Ebbene, il Filo del Rasoio è questo: una guida per i pazzi e per gli eroi che intendano portare se stessi vicino a questa verità ultima, con lo scopo dichiarato di cercare la realizzazione di un terzo stato di coscienza, capace di mantenere la molteplicità nella comprensione totale.

Il punto è che tale Stato Terzo non esiste ancora, quindi e per la prima volta nella storia della Coscienza, ci troviamo in una situazione nella quale là fuori non c’è niente e tutto ciò che ci sarà, dipenderà solamente da alcuni di noi. I più folli ed eroici, in effetti.

Mi pare evidente che questo non si può fare restando sul piano fisico perché la presenza della morte richiede un cervello rettile che assicuri la sopravvivenza del singolo organismo. Ciò comporta spinta all’accumulazione e, quindi, disequilibrio. La conseguenza è che il piano fisico dev’essere abbandonato (argomento ampiamente trattato in Quantum Jump, scritto che siete vivamente invitati a leggere).

Tuttavia, da qui al salto ci va un pezzo perché, così come siamo, non abbiamo alcuna possibilità di saltare. Il modo per percorrere tale pezzo è esattamente l’oggetto della guida in parola.

How to

Il “come fare” è tutto nero su bianco, dalla Teologia della Liberazione a Keter, a “L’Arte dell’Agguato” (prima e seconda parte). Non starò, quindi, a ripetere quel che ho già scritto altrove. Tuttavia e in omaggio alla logica che sottende questo lavoro, cercherò di fornire una visione la più possibile “olistica” (parolona, eh) del Filo.

Quando un individuo (femmina o maschio, non fa differenza) arriva alle soglie dell’età adulta (20/25 anni) ebbene, quell’individuo è sempre qualcosa di molto brutto.

Sono certo che alcuni di voi dureranno una certa fatica ad accettare quest’affermazione, tuttavia essa ha una spiegazione assai logica e conseguente giacché, a quell’età, un giovane esemplare d’essere umano è il prodotto del c.d. processo educativo, vale a dire di un condizionamento feroce in atto dal momento stesso della sua nascita.

Non metto in discussione le convinzioni degli “innatisti” così come dei fautori della reincarnazione o della metempsicosi. Sto semplicemente affermando che vent’anni di condizionamento, i primi tre dei quali attuati su un individuo del tutto fluido, provocano conseguenze profonde che, a prescindere dalle specifiche convinzioni di ciascuno, determinano “cristallizzazioni” altrettanto profonde e generanti rigidità psichiche molto importanti (facilmente osservabili in qualunque essere umano). Del resto, è esattamente su questo meccanismo che si basa l’edificazione di qualunque tradizione. Insegni a un bambino a legarsi le scarpe in un certo modo e non solo quello lo farà per l’intera vita, ma lo insegnerà anche ai suoi figli ripetendo a se stesso e a chiunque glielo chieda: “mio padre mi ha insegnato questo”.

Ora, è pacifico che legarsi le scarpe, concreti un’attività utile e, infine, con un livello di morbosità molto basso (ricordo, incidentalmente, che sono solito usare una “logica fuzzy”, nella quale non esistono solo il bianco e il nero, ma anche numerose sfumature di grigio). Il punto, tuttavia, è che quel che vale per questa banale tecnica, è vero anche per altre cose, ben più perniciose.

Si pensi, ad esempio, a un bambino con una madre ossessivo-compulsiva. È più che evidente che il piccolo, in età adulta, con estrema probabilità mostrerà il medesimo tratto. Il problema è che, insieme a quel tratto, di per sé già abbastanza sciagurato, nello stesso individuo sarà possibile individuarne molti altri, variamente marcati, ma tutti fantasticamente autonomi rispetto all’io osservatore.

Per i negazionisti dello schema appena proposto, ricordo che si tratta di un modello ampiamente accettato dal moderno cognitivismo. Vi sono studi di risonanza magnetica funzionale che dimostrano che il processo di apprendimento all’inizio interessa un rilevante numero di neuroni. Numero che diminuisce man mano che l’apprendimento procede e si consolida. Alla fine solo un piccolo gruppo di neuroni gestisce l’intera informazione, formando una vera e propria unità specializzata.

Sto parlando, quindi, di autentiche macchine psichiche create nel soggetto dal processo educativo e che, dall’istante del consolidamento dell’informazione, sono divenute realmente autonome, tanto che entrano in azione in modo del tutto automatico a fronte di un determinato input.

Ho denominato il fenomeno parassitismo psichico e l’ho già trattato altrove, riprendendolo qui al solo scopo di chiarire come lavora il Filo. Ebbene, l’unico scopo del Filo del Rasoio è distruggere queste strutture che, nel loro insieme, prendono il nome di Falsa Personalità e tale risultato è perseguito tramite la tecnica fondamentale denominata Agguato.

La tecnica in parola è dettagliata nella Teologia della Liberazione assieme ad una terminologia specifica (un linguaggio dedicato) e ha, come obbiettivo primario, quello di portare la c.d. chiocciola mnestica del singolo individuo in uno stato di fluidità totale, cosa che equivale in modo esatto al concetto di libertà totale presente in Castaneda. Ho evidenziato la frase con il grassetto perché questo è un concetto davvero importante. Tanti di noi, infatti e da quando quei libri sono in circolazione, hanno perduto la bussola nel tentativo anche solo di capire cosa fosse, in realtà, la “libertà totale”.

Nota – Sono in corso di realizzazione e, quindi, di prossima pubblicazione, uno o più articoli che trattano tale tecnica sotto più di un aspetto, compreso quello neurofisiologico.

Ora lo sappiamo. Siccome tutto quel che c’è al di fuori di noi è virtuale e l’unica cosa reale siamo noi stessi, allora appare evidente che la libertà totale è qualcosa che riguarda solamente noi stessi, il nostro dentro, la nostra soggettività.

Sotto questo profilo, la Falsa Personalità è efficacemente rappresentabile da una serie di strutture rigide, cristallizzate che, infine, fungono da filtri posizionati intorno al nostro Centro Intellettuale (CI), con la conseguenza che il centro stesso è tremendamente rallentato nella sua capacità di funzionamento. Al punto che, quando qualunque emozione erompe nel Centro Emozionale (CE), questa diviene in tempo reale la padrona assoluta della Totalità Psichica perché il processo mentale che dovrebbe gestirla è ostaggio di numerosissimi sub-processi, del tutto meccanici e altrettanto autonomi, i quali richiedono un costante sostentamento attentivo e, in ultima analisi, energetico. Si osservi il seguente schema (l’io-osservatore risiede nel Centro Intellettuale):

parassitismo-psichico
Figura 1: Parassitismo psichico

Lo schema esemplifica il concetto di parassitismo psichico tramite la corona di semi-toroidi che circonda l’io osservatore. Ciascun semi-toroide rappresenta una specifica cristallizzazione (o concrezione) psichica la quale, per il solo fatto di esistere, reclama sostentamento energetico tramite attenzione dedicata. Nel disegno, i semi-toroidi sono tutti uguali per esigenze più che altro estetiche. In realtà, le differenti concrezioni neurali (pensabili senz’altro come parassiti) presentano dimensioni e, quindi, “pesi” assai diversi. Il Super-Io, ad esempio, è una strutturata che, avendo a che fare con tutti i centri, è sempre presente e, solitamente, è molto estesa, oltre che parecchio ramificata, in modo da assicurare un controllo “fine” su qualunque dinamica psichica. Il senso di colpa, addirittura, preesiste a qualsiasi struttura poiché appartiene alla Coscienza Creatrice, di conseguenza, condisce qualunque situazione di vita di ogni individuo. Viceversa, un tratto come l’istrionismo compare solo in alcuni soggetti. In ogni caso, ciascuna di queste strutture (l’elenco, ovviamente, non è esaustivo) ha la capacità di attivarsi in modo del tutto autonomo e coerente con lo scenario psicodinamico in atto.

Quel che accade, quindi, è che poiché tali strutture sono disposte tra il CE e l’io-osservatore, la forza dell’emozione le attiva inevitabilmente. La conseguenza è che l’io osservatore è costretto a diventare quella struttura. E il motivo risiede nel fatto che il processo d’identificazione avviene all’istante, giacché la velocità dell’emozione è incommensurabilmente superiore a quella dell’io osservatore perché esso, essendo costretto a dissipare la propria energia attentiva per alimentare le varie concrezioni neurali che lui stesso ha creato, non ha modo di competere a quel livello di funzionamento.

Tizio crede in “dio” e passeggiando sente un individuo urlare e bestemmiare. Tizio non se ne avvede per niente, ma un nanosecondo dopo è già prigioniero dell’indignazione e dell’odio verso il bestemmiatore perché la sua “fede” sta gestendo l’intera situazione in vece sua.

Caio ha un marcato tratto narcisista e si aspetta che chiunque interagisca con lui renda omaggio alla sua avvenenza. Non appena quest’attesa è delusa, l’io-osservatore di Caio entra in uno stato di sofferenza. Sofferenza che, a sua volta, sarà compensata da un’altra struttura auto-attivata (potrà, ad esempio, scivolare verso la depressione, oppure reagire in modo aggressivo).

Il punto è che gli io-osservatori di Tizio e di Caio, sotto lo stimolo dell’emozione, hanno subito un autentico processo di zombificazione, ossia e da quell’istante, Tizio e Caio saranno più simili a dei morti che camminano (walking dead) piuttosto che a degli esseri umani. La definizione può apparire eccessiva, tuttavia non lo è per nulla e ciò perché nel preciso istante nel quale Tizio e Caio divengono preda di queste macchine psichiche, dimenticano se stessi (si badi che questo meccanismo copre l’intera attività di veglia). A quel punto Tizio e Caio non esistono più, al loro posto ci sono due pupazzi, due burattini privi di consapevolezza di sé e mossi esclusivamente dalla forza dell’emozione agente.

Attenzione, se ricordate quanto detto sulla solitudine della Coscienza Creatrice come genesi della paura, dovrebbe essere evidente che quello appena descritto è un meccanismo necessitato. Tuttavia (ed è qui che s’innesta il Filo) non invincibile. Per i cultori di Castaneda, infatti, questi sono i famosi “scudi” che Juan Matus cercava di togliere al suo apprendista attraverso la pratica della stregoneria. In effetti, distruggere in modo progressivo questi scudi, determina il relativo aumento della velocità di funzionamento del CI, sino al risultato (sublime) d’avere un CI che funziona alla medesima velocità del CE.

Cosa pensate che possa produrre questo, se non l’assoluta libertà di scelta e di azione rispetto alle nostre emozioni? In effetti, come detto, questa è la tanto famosa, quanto sconosciuta, libertà totale di castanediana memoria. Uno stato della mente al quale il Filo conduce senza “se” e senza “ma”. E la cosa davvero interessante, in assoluto omaggio all’astrattezza, è che l’individuo non ha alcun bisogno di maestri per ottenere ciò. L’unica cosa che l’individuo è tenuto a fare è volerlo. Mi riferisco alla generazione di un intento profondo, assoluto, tanto potente da essere capace di fondare quella che, nel linguaggio della Quarta Via, si chiama un’ottava ascendente, ossia un atto di volontà talmente sostenuto e inflessibile da vincere l’oblio e, quindi, la forza della meccanicità nella quale ogni vivente è immerso. Al resto pensa “K”.

Il problema costituito da ciò che chiamo K è stato definitivamente risolto solo di recente. In ogni caso e per saperne di più, tutto quel che dovete fare è leggervi il relativo documento (K). Qui, ciò che rileva è precisare il senso del cammino che K costruisce per chi si mette sul Filo. E tale senso è perfettamente descritto da ciò che Gurdjieff definì sofferenza volontaria.

È, infatti, impensabile arrivare alla libertà totale senza passare attraverso la sofferenza perché le concrezioni neurali parassite devono essere distrutte e questo non si può fare senza soffrire. Tuttavia, è importante precisare che questo non ha nulla in comune con il martirio. I martiri sono individui profondamenti identificati con la folle idea che esista un dio. Di conseguenza, la loro azione non li porta alla libertà, bensì solo dentro una cristallizzazione più grande.

In ogni caso, di là da tali profili profondamente patologici, il Filo disegna un cammino di perfezione assoluta teso, come meglio descritto altrove, a portare la c.d. chiocciola mnestica in uno stato di fluidità totale, ossia uno stato privo di concrezioni neurali parassite. All’incirca come nel seguente schema:

liberta-totale
Figura 2: Libertà Totale

Questo comporta la nostra disumanizzazione? Se per umanità s’intende l’estrema facilità con la quale le persone s’infilano nell’autocommiserazione e nell’indulgenza, sì. Certamente. Tuttavia e in ottica guerriera, quella appena formulata è una domanda oziosa giacché lo stesso concetto di umanità è, infine, nulla più di una convenzione. Senz’altro, uno stato transitorio e del tutto incapace di spiegare se stesso attraverso frasi del tipo: la nostra esistenza è giustificata dal solo fatto che esistiamo. Questa è una sciocchezza che può funzionare per chi concepisce la vita come un “dono” e, quindi, resta ancorato nel profondo all’idea che siamo “creature limitate”.

Per chi capisce il Filo, questo modo di pensare, pavido e illusorio, è del tutto insensato. Chi capisce il Filo, sceglie di sostenere una visione profondamente differente nella quale tutto ciò che è diverso dalla Coscienza è virtuale poiché creato dalla Coscienza stessa. Chi capisce il Filo ha scelto di sobbarcarsi interamente la responsabilità d’essere egli stesso creatore di tutto ciò che lo circonda e di mettere se stesso in gioco rispetto all’unico problema che assilla la Coscienza Creatrice: risolvere la Danza Folle, realizzando lo Stato Terzo. E questo, si può tentare di fare solo portando la chiocciola mnestica in uno stato di fluidità assoluta per edificare, su questa base, un Doppio immortale e, di conseguenza, per avere una chance rispetto alla soluzione del problema costituito dalla Danza Folle.

Quel che offre il Filo, quindi, è una concezione eroica dell’esistenza o, come diceva il viejo nagual la possibilità di vivere una vita buona e forte senza, tuttavia, scadere nella melma ipocrita della carità e della misericordia cristiane. Questo vuol dire una serie di cose abbastanza precise e che, se volete, sono tutte riassunte nel concetto d’impeccabilità.

L’ho appena scritto, ma lo voglio ripetere: non commettete l’errore di leggere l’impeccabilità come qualcosa che abbia in qualche modo a che fare con una visione religiosa. La religione, qualunque essa sia, è un enorme ambito nevrotico che genera solamente parassitismo psichico, mentre il Filo esiste per distruggere ogni forma di parassitismo.

Sul Filo del Rasoio, l’impeccabilità è perfezione di pensiero e d’azione, a prescindere da ciò che sarà fatto. Quest’ultimo aspetto, infatti, è determinato dalle storie personali degli individui. Di conseguenza e in omaggio all’astrattezza, non ce ne possiamo curare in via preventiva perché, farlo, equivarrebbe ad appesantire il Filo, fino a farlo morire. Viceversa, il focus deve restare sul soggetto, sul suo atteggiamento intimo rispetto all’azione che sarà spiegata.

Voglio significare che l’impeccabilità riguarda anzitutto le premesse di una qualunque scelta. E questo, se volete, è l’aspetto più facile da risolvere giacché chiunque cammini sul Filo, ha (di default) uno scopo trascendente chiamato Stato Terzo. Ciò comporta che è bene tutto ciò che conduce più vicino a tale scopo ed è male tutto ciò che allontana da esso. Esiste, tuttavia, un secondo aspetto di fondamentale importanza.

Per praticare l’agguato, un individuo deve imparare il distacco. Ora, il distacco reale è una cosa che certamente viene con il tempo, che cresce un giorno dopo l’altro grazie alla pratica costante ma che, tuttavia, deve essere attuata da subito come se fosse interamente presente. Che vuol dire questo? Molto semplice: che, sin dall’inizio del cammino, il guerriero dev’essere disposto a morire per sostenere le scelte compiute, a prescindere dal fatto che possano dare risultati molto o per niente desiderabili.

Egli, prima d’agire, s’è interrogato impeccabilmente, ha valutato ogni cosa e, infine, ha preso la sua decisione. Questo comporta che ora è pronto per affrontare qualsiasi conseguenza, confidando totalmente nel suo potere personale e ridendo in faccia alla morte, se necessario. Questa è impeccabilità autentica. Un tratto che non può essere né vinto, né piegato da alcuno e che fa di un uomo comune, un guerriero della libertà totale. Questo è il livello d’azione che sposta l’intera esistenza di un uomo comune su un piano eroico e che è realmente capace di fare a pezzi la Falsa Personalità.

Come detto in più occasioni, il Filo è un percorso per pochissimi. Tuttavia, nessuno di noi sa in anticipo se può essere adatto per questo tipo di svolta. L’unico modo per saperlo è mettersi alla prova.

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9 Risposte a “Il Filo del Rasoio”

  1. Ho sperimentato anch’io quei momenti di solitudine non legati a vicende ma, per così, dire essenziali. Non so dire se in quei casi (peraltro diurni) sono stato Coscienza creatrice, ma l’ipotesi è decisamente più che semplicemente suggestiva…

    Leggo da alcuni mesi questi articoli e sono in risonanza con i metodi proposti. Direi che se si sono attraversate certe cose, vengono avvertiti intuitivamente addirittura come gli unici possibili.
    Tuttavia, se non rompo toppo visto che ho già scritto da poco, colgo l’occasione per chiedere chiarimenti su qualcosa che, sul piano strettamente teorico, non riesco a coordinare. L’occasione mi è fornita dal concetto di “non sé” proprio del buddhismo di cui si parla in questo articolo.
    Se non siamo, in che senso “siamo noi i creatori di tutto quanto esiste e non c’è nulla di reale al di fuori o sopra di noi”?
    Rifacendomi a Castaneda, spesso citato in questo blog, forse dovremmo parlare più di qualcosa che esiste a causa dell’allineamento tra emanazioni in grande e emanazioni in piccolo e della pressione che le prime esercitano sulle seconde. Parlare di noi creatori di tutto mi sembra di nuovo a rischio di caduta in un ambito nevrotico lusingandoci con un senso di onnipotenza (per quanto più raffinato di quello inteso dal senso comune).
    L’unità di percezione che è l’uomo è forse solo niente altro che l’interazione fra i due tipi di emanazioni. Non so se questa “interazione” abbia la facoltà di creare. La vedo più partecipare a qualcosa.

    Infine, mi sto interrogando sull’assoluta libertà di scelta come risultato della conseguita libertà totale.
    E’ vero, quando non siamo liberi le nostre scelte sono condizionate, ma quando siamo liberi (quindi anche dalla valutazione di utile o conveniente), che vuol dire libertà di scelta, che vuol dire scelta? Direi che diventa indifferente.
    Al massimo la libertà di scelta può aver senso per quella specifica fase in cui abbiamo ancora delle opinioni di convenienza e però talune forme di inibizione ci impediscono di praticare la scelta libera funzionale al raggiungimento del supposto risultato utile.
    Quando siamo liberi, che contenuto, per dir così, può avere la libertà di scelta? A cosa si può riferire?

    1. I commenti intelligenti sono sempre ben accetti, Cesare 🙂

      Ok, veniamo alla ciccia. Riguardo alla dottrina dell’anatman, penso che si tratti di un errore al quale Buddha è stato indotto dalla paura del vero mostro che popola i sogni di coloro che un’anima ce l’hanno (sì, perché mi son fatto l’idea che siano una parte relativamente piccola dell’umanità, ma questo è un altro discorso).

      Tale mostro è la solitudine che anche tu hai conosciuta e che, infine, è il vero motore del sonno dei viventi. Qualcosa di talmente atterrente che legittima qualsiasi deriva confabulatoria. Ogni cosa è ammessa, pur di dimenticare il mostro. Ogni descrizione, per quanto improbabile o spaventosa è “meglio” del ricordarci di chi siamo in realtà.

      Ecco, sulla scorta di questo MUST, l’umanità edifica la propria storia che è fatta di “descrizioni”, ciascuna diversa, ciascuna falsa, eppure vera. Nel Filo si usa l’immagine “follia su follia”. Va bene tutto pur di mantenere il sonno e, di conseguenza l’oblio.

      Il punto, quindi, sta proprio qui, ossia nel fatto che verità e menzogna non possono essere predicate per nulla che esista nella Dualità poiché, essendo ogni oggetto diviso nei suoi opposti, quell’oggetto è inconoscibile e, di conseguenza è vero e falso nel medesimo tempo.

      Come puoi conoscere la materia se in questo preciso istante è divisa dall’anti-materia? Potrai descriverla e, in effetti, siamo diventati bravissimi a farlo. Ma non esiste modo di conoscerla per ciò che è in essenza.

      L’unico modo è tornare nell’Uno ma, a quel punto, torni nella solitudine eterna!

      Perciò e concludo, l’unico modo è mantenere noi stessi in uno stato “folle” (duale) nell’attesa di riuscire a realizzare ciò che ho chiamato Stato Terzo, ossia uno “stato di Coscienza” nel quale tutto è perfettamente descrivibile (mantenendo l’illusione della molteplicità) e, allo stesso tempo, perfettamente comprensibile (eliminando il senso di colpa e, quindi, la sofferenza).

      Per questo, quando mi chiedi quale significato ha la libertà di scelta, l’unica cosa che posso affermare è dirti: questa è la mia descrizione, so bene che è folle come qualsiasi altra cosa, ma è la prima volta che una descrizione offre una possibilità sensata di soluzione definitiva della Danza Folle 🙂

        1. Dovrai avere un po’ di pazienza perché il lavoro che ho impostato è molto più impegnativo di quel che pensavo. Ho intenzione d’inserire una parte specifica in tema di neurofisiologia e, come puoi immaginare, devo stare parecchio attento a ciò che scrivo. In ogni caso, ti posso garantire che vedranno la luce (anche se, con ogni probabilità, ormai l’anno prossimo) 🙂

  2. Quando ti è possibile potresti spiegarmi un po’ meglio l’affermazione secondo cui lo Stato Terzo è quello
    “stato di Coscienza” nel quale tutto è perfettamente descrivibile (mantenendo l’illusione della molteplicità) e, allo stesso tempo, perfettamente comprensibile (eliminando il senso di colpa e, quindi, la sofferenza)?
    In particolare avrei bisogno di comprendere meglio il significato che hanno in questo specifico contesto gli aggettivi “descrivibile” e “comprensibile” così come anche il senso che, nello stesso contesto, ha l’espressione “senso di colpa”.
    Grazie

    1. Certamente, con la premessa che lo Stato Terzo come tale, non essendo ancora stato raggiunto, nessuno sa cosa sia 🙂

      Any way, partiamo dalla descrivibilità per arrivare alla comprensibilità. Se prendi qualsiasi testo di fisica e cerchi una definizione che ti descriva la materia in essenza, non la troverai.

      Troverai che la materia è qualcosa che occupa uno spazio perché ha un volume e una massa. E troverai la descrizione di numerose qualità fisiche, elettriche, chimiche, ma nulla che ti dica che cos’è in essenza la materia.

      Questo per un semplice motivo: ciò che noi definiamo materia è solo metà della “verità”, ossia di quella “indescrivibile” cosa che si ottiene quando materia e anti-materia si uniscono.

      Un fisico ti dirà: si annichiliscono! Certo, questo è ciò che vediamo noi poiché percepiamo l’Uno come Nulla. E ciò accade proprio perché l’Uno è indescrivibile giacché, unendo gli opposti, ha perduto la possiblità d’essere descritto.

      Quest’oggetto è bello. Perché? Perché quest’altro è brutto. Nell’Uno, bello e brutto sono uniti in un unico oggetto indescrivibile e, tuttavia, totalmente comprensibile 🙂

      Ecco, lo Stato Terzo è quello stato di Coscienza nel quale entrambe le azioni sono possibili. Come arrivarci? Non lo so, ma so che se è vero che sono Coscienza Creatrice, allora posso qualunque cosa. E questo, se vuoi, è il “dover credere” del guerriero.

  3. Grazie. Ora descrivibilità e indescrivibilità mi sono più chiare.
    Riguardo alla espressione comprensibilità, per come viene usata qui, mi chiedevo se è da darle più il senso di un capire o di un includere.

    1. Direi che le due cose sono legate, nel senso che per decidere se includere o meno, prima devi capire. Tuttavia, siccome immagino il percorso verso lo Stato Terzo come un processo d’inclusione progressiva (soprattutto a livello dimensionale all’interno del Multiverso), allora è chiaro che le due definizioni si fondono, sino a diventare la medesima cosa.

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