L’Arte dell’Agguato – Psicodinamica

Chi se lo sarebbe mai aspettato che, dopo una vita dedicata alla ricerca della “pietra”, si potesse giungere al punto di vedere, con una chiarezza che non lascia adito ad alcun dubbio, che il Lapis Philosophorum è nulla più di una confabulazione delirante?

Dopo Il Mattino dei Maghi di Louis Pauwels e Jacques Bergier, dopo Jorge Luis Borges e il suo Aleph, dopo le Nozze Chimiche di Christian Rosenkreutz e persino dopo la conferma sperimentale dell’esistenza delle onde gravitazionali, chi poteva concepire con la fantasia un simile epilogo?

Il fatto è che in me, a un certo punto, è sorto un sentire nuovo. Come uno stato d’animo a sfaccimma, ontologico, aprioristico e che, infine, se la rideva in modo feroce e spietato del razionalismo, del positivismo, dell’esoterismo, del mentalismo, dell’ebraismo, del “cristianismo”, dell’islamismo, del buddhismo, dello stregonismo, dello wicchismo e dell’anima de li mejo mortacci loro.

Avevo sedici anni quando un tizio che conoscevo mi prestò Il Mattino dei Maghi. Non glielo restituii mai più perché, ogni volta che ci provavo, qualcosa me l’impediva. Per anni cercai inutilmente di capire cosa. Ogni volta che il libro mi capitava fra le mani, avvertivo un sottile senso di colpa, ma non facevo un passo per mettere fine a quel piccolo dramma poiché c’era sempre quel qualcosa che semplicemente bloccava la mia azione. Finalmente, anni dopo compresi. Tuttavia, era tardi perché, nel frattempo, avevo perduto il libro e cambiato città. Perciò, ancora oggi, l’unica cosa che posso fare rispetto a quel piccolo abisso colposo, è ridere forte di quel tizio, del suo libro e del “me” spaventato e rabbioso davanti alla porta che quelle pagine avevano spalancato nella mia esistenza.

Paura e rabbia, ecco le cause del mio comportamento. Quel libro, per quanto naïve possa apparire rileggendolo oggi, aveva agganciato la mia parte che sa tutto (il mio centro magnetico, direbbe Gurdjieff), accendendola. E questo, la mia personalità inferiore, all’epoca totalmente dominante, non poteva perdonarlo.

Macchine. A quel tempo ero un grumo storto di macchine neurali. Distretti autonomi, formati da gruppi di neuroni che, molto semplicemente, ripetevano in modo seriale ciò che il processo educativo aveva detto loro di fare.

Macchine. Ciascuna focalizzata su un unico e specifico compito che, a fronte di un’informazione attesa, era adempiuto in modo del tutto automatico, seriale e meccanico.

Questa è la storia della vacca Vittoria … morta la vacca, finita la storia.

Ammazza la vecchia … col fliiiiit!

Abbiam fatto trenta … e facciamo trentuno.

Macchine. Piccole giostre meccaniche che, una volta azionate, devono arrivare a fine corsa. Filastrocche insensate, modi di dire stereotipati, penose abitudini mentali che, tuttavia, ci descrivono poiché le abbiamo strutturate durante l’apprendimento, negli anni dell’infanzia. Si parte dalle più piccole e, almeno apparentemente, innocue per arrivare ai grandi golem costruiti intorno alle figure parentali, il padre e la madre che, come giganteschi moloch, troneggiano dentro ciascuno di noi (anche negli orfani, per i quali l’abbandono ante litteram ha strutturato due enormi assenze, fatte di rancore, paura e sgomento).

Nota – Riguardo al lemma golem, così la tradizione talmudica: ” Dodici ore ebbe il giorno; nella prima fu ammucchiata la terra, nella seconda esso divenne Golem, nella quarta fu infusa in lui l’anima”. Il Golem, inteso come automa o come creatura senza spirito, è ritenuto opera dei maestri cabalisti. Celebre fu Yossel, il Golem praghese creato nel XVI sec. dal “Marahal” o Morenu Ha-Ray Loew (Maestro Loew, 1520-1609) per difendere gli ebrei dalle persecuzioni. Per quel che qui rileva, golem è da intendersi esattamente come “creatura (neurale) senza spirito”, via di mezzo fra la parte animica (l’universo monadico v. Teologia della Liberazione) e l’Uomo Compiuto.

Mi ci sono voluti molti anni e moltissima sofferenza volontaria per fare a pezzi quelle macchine e, durante l’intero processo, ho dovuto credere in qualcosa. In tutta franchezza, è stato molto difficile poiché credere in qualcosa è un esercizio davvero ostico per la mia essenza, tuttavia non se ne può fare a meno, giacché se non credi in nulla, il moto del tuo procedere non sarà mai rettilineo. In altre parole, continuerai a girare in tondo, senza mai arrivare da nessuna parte.

Il vecchio nagual risolse la faccenda con un brillante stratagemma: il dover credere del guerriero. Il vecchio diceva che un guerriero deve credere che il mondo che lo circonda è misterioso e insondabile. Perifrasi in parte oscura con la quale, tuttavia, lo stregone cercava d’offrire una via d’uscita alla mente razionale poiché, se qualcosa è definito come misterioso e insondabile, ciò tronca di netto qualunque speculazione logica. Infine, si tratta del medesimo meccanismo in atto nei credenti di qualsiasi religione senza, però, il metus che si nutre verso un qualunque “dio”. Solo un cazzo di dubbio che salva l’individuo dal delirio. Il dubbio che tutte le meravigliose certezze sulle quali poggia la mente, in realtà, tali non siano. E questo, basta e avanza.

Così, verificata l’efficacia dell’Agguato e forti del nostro (allo stato) indescrivibile credo (la libertà totale) ridiamo ferocemente durante ogni occasione nella quale, in base al “buon senso”, ci sarebbe solo da piangere. E, ogni volta, una forza devastante prorompe dalle profondità dell’essere e fa a pezzi ogni cosa, mentre il sapore del sangue riempie il naso e la bocca e qualcosa, nella testa, incredibilmente, si apre rendendoci consapevoli di un mutamento profondo che dà la certezza che nulla sarà più come prima. Una certezza destinata a durare breve tempo, dato che l’oblio non cessa di fare il suo sporco lavoro e, tuttavia, mai come in quegli istanti, le parole del vecchio nagual risuonano così profondamente vere: senza controllo, siamo feccia.

È un procedere drammatico, spesso disperante perché, ogni volta, ci si trova di fronte alla paura che divampa dall’Ego minacciato da una frustrazione, da un fallimento, da uno sgambetto, magari proveniente da un familiare. Oppure è un ricordo improvviso, che entra a gamba tesa e ci lacera il plesso solare, evocando deliri d’ingiustizia subita, di dolore sofferto, d’incomprensibile abbandono. Ed è un procedere lento perché il corpo fisico, con la sua enorme massa, costringe l’essere dentro una realtà pesante e che deve fare i conti con i bisogni della sopravvivenza. Bisogni che per l’individuo ingenuo divengono “gioie quotidiane” ma che trasformano l’uomo astuto in un disperato Sisifo, condannato a spingere in alto la sua pietra che, ogni volta, rotola a valle, costringendolo a riprendere il lavoro dall’inizio (o quasi).

È in quegli istanti, un attimo prima che il mondo crolli rovinosamente sotto il peso di qualche tipo di delirio, che la risata esplode e compie il miracolo fermando l’Io Osservatore (IO) rispetto al flusso della montante marea emotiva. È questo che manda in pezzi la macchina che ci sta possedendo poiché, se la nostra presenza (ricordo di sé) resta immobile, l’IO non può identificarsi con la macchina evocata dall’emozione in atto. Di conseguenza, la macchina (golem) perde significato e giustificazione e finisce inevitabilmente distrutta o, quanto meno, significativamente ridimensionata.

Il golem, infatti, non possiede vita propria, ma esiste solo perché l’IO lo sostenta tramite l’attenzione veicolata dall’identificazione (ho proposto una specifica definizione di attenzione in Keter). In base a tale meccanismo, infatti, quando Tizio si lega le scarpe è convinto con tutto se stesso d’essere in atto di compiere quell’atto. In realtà, ciò che sta facendo è esistere momentaneamente dentro un golem che si occupa di assolvere un compito che, una volta portato a termine, lo costringerà a saltare dentro un’altra macchina, quasi fosse un grillo neurale che saltabecca fra i golem che popolano il suo internal brain, usandoli come zattere per non precipitare nell’abisso sottostante. E questo è vero al punto che ciascuno di noi è costantemente alla ricerca di golem che ingaggino l’IO tanto che, se la manovra fallisce, il risultato è la paura, sperimentata variamente come ansia o panico.

Ora, l’ipotesi prospettata è che Tizio stia usando una macchina utile e del tutto inoffensiva (utilità relativa, considerato che in Amazzonia esistono popolazioni che non hanno mai visto un paio di scarpe e che vivono felici). Tuttavia, il medesimo meccanismo si attua qualora Tizio sia oggetto di un’offesa da parte di Caio. Quando Caio offende Tizio, il meccanismo di difesa scatta fulmineo poiché il rettile ha un tempo di reazione incommensurabilmente più veloce di qualsiasi altro meccanismo cerebrale. Ciò comporta l’evocazione delle macchine che determineranno la reazione specifica di Tizio (attacco, fuga, freezing) e che costui ha variamente strutturato durante gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza.

A prescindere dalla scelta di fondo, quindi, lo specifico comportamento di Tizio sarà caratterizzato in un modo particolare. Alcune persone, ad esempio, a fronte di un’offesa diretta scelgono l’attacco, tuttavia questo sarà agito in modo diverso da ciascuno. Taluno può reagire fisicamente, altri lo faranno verbalmente e, all’interno di tali schemi, ciascuno manifesterà un comportamento ancora diverso. Ebbene, tutto questo non è altro che il frutto dell’azionamento delle specifiche macchine invocate dall’input sensoriale e con le quali l’individuo è identificato.

È l’identificazione, quindi, il meccanismo che permette allo specifico golem di esistere e di continuare a funzionare. Questo perché quel golem, sulla scorta dell’eruzione emotiva in atto (vero motore del processo), si consolida e s’incrementa ulteriormente poiché assorbe totalmente l’attenzione dell’IO. L’attenzione, infatti, è il meccanismo che veicola il potere creativo. È evidente che, se permetto alla mia attenzione di fondersi con un qualunque oggetto, io stesso diventerò quell’oggetto e che, da quell’istante, l’intero potere creativo sarà tolto dalla mia disponibilità e gestito in modo del tutto automatico dall’oggetto stesso (dal golem, appunto). Ebbene, questo stato psichico può senz’altro essere definito come una condizione di profondo sonno neurale.

Una condizione che caratterizza l’intero periodo di veglia e che la pratica meditativa semplicemente bypassa senza risolvere. Ragione per la quale durante il secolo scorso, quando i primi mistici orientali, dall’India giungevano in occidente, venendo in contatto visivo con le esuberanti e sempre più scoperte bellezze muliebri che incontravano sul suolo americano, perdevano letteralmente la testa. Questo perché l’intero impianto golemico non era stato minimamente toccato dalla loro meditazione.

Viceversa, svegliando l’IO tramite la risata feroce rispetto all’emozione negativa in atto, l’elisione dell’attenzione dentro la macchina è impedita e questa, improvvisamente orfana del potere creativo, non ha altra scelta che quella di andare in pezzi. Non a caso, una delle sensazioni più forti e caratteristiche è il sapore del sangue che invade la bocca e il naso. Unitamente ai conati di vomito e alla sensazione di libertà immediatamente successiva, questa sinestesia del “sangue in bocca” è fra le conferme più certe che l’Agguato ha centrato l’obbiettivo.

Ebbene, come descritto nel lavoro precedente, questa pratica reiterata nel tempo fa a pezzi i golem, perlomeno quelli inutili e/o dannosi. In realtà, chi lo volesse, potrebbe estendere tale pratica a ogni golem presente nel proprio internal brain. Tuttavia, questo ha un prezzo elevato poiché determina il ritorno nel Nulla (cosa altamente esecrabile, almeno dal punto di vista del Filo del Rasoio, ma si tratta di un argomento già trattato altrove).

Per fermarci, quindi, ai golem inutili e/o dannosi, la pratica costante dell’Agguato riserva comunque sorprese spiazzanti quali, ad esempio, quella cennata all’inizio di questo lavoro e che si può sinteticamente rendere con la seguente affermazione: qualsiasi idea, per quanto elevata e sublime possa apparire, tende a diventare un golem non appena è stata formulata. Finanche il Lapis Philosophorum.

Che significa questo? Che il Lapis (esattamente come i demoni, gli angeli, dio o gli alieni) è un parassita e che, perciò, dovrebbe essere trattato come tale. Questo, tra l’altro, diviene sempre più evidente con il procedere del Lavoro. All’inizio e per diverso tempo, infatti, l’individuo è portato dal suo K a ingaggiare le macchine meno potenti, quelle che possiamo pensare come costituenti la periferia del sistema. Solo con il tempo e a patto che l’intero processo non abortisca, il focus del procedere si sposterà a profondità sempre maggiore, sino a interessare i grandi golem costruiti intorno alle figure parentali (il ricordo delle quali, come detto nel precedente lavoro, risiede nell’outer brain), nonché la parte più sacra e intangibile di noi, quella nella quale abbiamo messo alcune cose che non possono essere in alcun modo toccate e/o discusse.

Ecco, è proprio quest’ultima e più riposta parte di noi la custode di oggetti come il Lapis Philosophorum, ma non solo. In quel luogo così profondo e segreto, infatti, ciascuno ci mette quel che, in base alla propria storia e ai propri tratti essenziali, ritiene sacro e intoccabile. E, così, il narcisista ci mette l’immagine che ha di se stesso, il devoto ci piazza il padre celeste e amorevole che la sua paura della morte lo spinge a creare, il violento vi colloca un bimbo abbandonato e che va difeso con la vita, il tossico vi pone lo stesso Nulla, ossia l’idrovora mai sazia che si nutre della sua esistenza.

Pensate d’essere immuni? Vi sbagliate. Anche voi, come tutti, avete un’area 51. Un luogo super segreto al quale ogni accesso è precluso giacché custodisce la parte più sacra di voi, quale che sia. Ecco, la notizia è che l’Agguato la farà a pezzi, con tutto ciò che contiene poiché, qualsiasi cosa sia, si tratta comunque di un’istanza egoica elevata a rango sacrale dalla paura della morte e da quella dell’abbandono. Due mostri che ossessionano l’Ego e che, con il passare del tempo, lo rendono viepiù ipertrofico e storto. L’idea d’essere abbandonati ci terrorizza e, allo stesso modo, la morte ci atterrisce. Il problema è che sono entrambi aspetti di un destino inevitabile perché, solitamente, i genitori muoiono e noi, dopo qualche anno, li seguiamo. Infine, il vero target dell’Agguato è l’Ego, ossia ciò che sul Filo è denominato Falsa Personalità.

In America, presumo operi ancora un tizio di nome E. J. Gold, un artista eclettico che da diversi anni si occupa di autoconoscenza. È autore di diversi libri, tra i quali il Libro Americano dei Morti, ossia uno strumento occidentale per i c.d. Lettori del Bardo, persone che, richieste, entrano nelle case dove è appena deceduto qualcuno, si piazzano vicino la salma e parlano con questa, convinti di poterla aiutare ad attraversare quel luogo (Bardo) che sta fra la morte di un individuo e la sua eventuale rinascita. L’intento di costoro è guidare il defunto fuori dal ciclo delle reincarnazioni.

Al di là dell’attendibilità o meno di tale descrizione, nel presentarla Gold suggerisce al lettore di fare una prova, invitandolo, in occasione della visita a un defunto, a osservare la salma cercando di “vederla” per ciò che è in realtà in quell’istante. In specifico, Gold enfatizza quello che definisce l’effetto dell’assenza del cappello pensante. Assenza che rende visibile l’essenza del defunto stesso, ossia e nei termini del Filo, la parte espressa dalla chiocciola mnestica, il patrimonio di ricordi reali custoditi nell’outer brain.

Ebbene cos’è questo cappello pensante, se non il ginepraio di funzioni neurali strutturate dall’individuo durante l’intera esistenza? Di conseguenza, il defunto è l’immagine precisa di un’essenza silente giacché priva degli strumenti del linguaggio e, in particolare, del dialogo interno.

Ho voluto proporre quest’esempio per cercare di portare il lettore nella dimensione reale nella quale opera l’Agguato. La consapevolezza di tale dimensione, infatti, proprio per la vastità dell’universo golemico, nonché per l’ossessività che lo caratterizza, è facilmente perduta. In modo generico chiamiamo questo stato “sonno”, tuttavia esso può efficacemente essere descritto come impossibilità di mantenere una posizione terza rispetto al funzionamento delle singole macchine. Stringiamo un bicchiere, stiamo bevendo e questa convinzione ci è restituita in modo formidabile dai nostri sensi. Tuttavia, la verità è che in quell’istante siamo dentro una macchina che ripete l’unica cosa che sa fare. Smesso il bicchiere, siamo a ridosso dell’abisso e ci finiremmo dentro se, immediatamente dopo, un’altra macchina non subentrasse a cementare l’idea di un’esistenza reale … posiamo il bicchiere sul tavolo e prendiamo la forchetta per ingerire dell’altro cibo … almeno sino a quando un Lettore del Bardo non verrà a farci visita.

ADAC

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3 Risposte a “L’Arte dell’Agguato – Psicodinamica”

  1. Non riesco a spiegarmi; cercare di far capire cosa ho compreso, non fa parte della mia cognizione espressiva; questi sono i momenti in cui mi rammarico per non aver potuto destinare più tempo allo studio. Cercherò di interpretare questo scritto con una figura: l’uomo che infine riesce a estraniarsi da tutto ciò che è “standard” ,nell’ambiente in cui vive, tenendo con se solo una valigia; quella dell’essenziale che fa bene all’uomo, alla terra e all’aria, con gran rispetto per gli altri e per se stesso

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