Vudù a modo mio

Everybody pays, everybody suffers (Papa Legba AHS)

Devo avvertire il lettore che il presente lavoro è lontanissimo da qualsiasi intento enciclopedico. Il Vudù è una religione complessa, di conseguenza, moltissimi aspetti del fenomeno in discorso sono dati per conosciuti o, in ogni caso, conoscibili sfruttando le numerose fonti rese disponibili dalla rete. Altresì, il problema della nomenclatura è semplicemente bypassato con l’adozione secca del nome Vudù, con il quale intendo indicare le religioni afro-americane di Haiti.

L’intero lavoro è orientato alla dimostrazione della natura parassitica del Vudù. Natura, ovviamente, condivisa con qualunque altra religione (la base teorica del fenomeno è rinvenibile in Parassitismo Psichico). Di conseguenza e come sono solito fare, l’intero articolo punterà a un’analisi sia psicologica, sia stregonesca del fenomeno.

Buona lettura.

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Nel 1938, Zora Neale Hurston, scrittrice e studiosa del folklore statunitense, esponente talentuosa della Harlem Renaissance, autrice di quattro romanzi e di numerosi racconti e sceneggiature teatrali, assurge all’onore delle cronache come cacciatrice di zombie quando pubblica Tell My Horse: Vudù and Life in Haiti and Jamaica, testo che ricomprende il racconto della sua singolare esperienza haitiana. Di seguito, un frammento significativo:

Ho avuto la rara opportunità di vedere e toccare un caso autentico. Ho ascoltato i rumori rotti nella sua gola … Se non avessi provato tutto questo nella forte luce del sole di un ospedale, sarei potuta essere interessata ma dubbiosa. Tuttavia, ho visto il caso di Felicia Felix-Mentor che è stato garantito dalla più alta autorità. Quindi, so che ci sono gli zombi ad Haiti. Le persone sono state richiamate dai morti.

La vista era terribile. Quella faccia vuota con gli occhi morti. Le palpebre erano bianche intorno agli occhi come se fossero state bruciate con acido. Non c’era niente che potevi dire o ottenere da lei. Potevi solo osservarla e la vista di quel relitto non si poteva sopportare a lungo.

Nel libro, Zora pubblica la famosa foto dello zombie Felicia Felix-Mentor, una donna haitiana deceduta nel 1907 e ricomparsa nel 1936 sotto tale forma.

 

Felicia Felix Mentor
Figura 1: lo zombie Felicia Felix-Mentor

Qui, un’intervista radiofonica del 1943 nella quale Zora, con l’incedere cantilenante caratteristico degli afro-americani, parla degli zombies, di cosa sono e di come sono creati, nonché del caso di Felicia. E l’aspetto sul quale l’autrice indugia di più è la descrizione dello zombie come creatura priva di mente e di volontà, creata da un Bocor (praticante del Vudù) per essere usata come uno schiavo.

Ora e considerate le premesse dalle quali muove l’autrice (il termine Harlem Renaissance è coniato in seguito alla pubblicazione dell’antologia di racconti The New Negro di Alain Locke, nel 1925), l’analisi immediata potrebbe essere quella che vede l’intera esperienza di Zora come lo sforzo di una donna di colore che vuole esorcizzare, direi in modo proprio fisico, qualunque rischio di ritorno alla condizione dalla quale il suo popolo era appena uscito. Analisi sensata e, tuttavia, riduttiva rispetto sia allo sforzo prodotto da Zora sia, soprattutto, alla realtà con la quale la donna si è confrontata: il Vudù, appunto.

Prima di arrivare ad Haiti, infatti, Zora passa attraverso diversi e impegnativi riti d’iniziazione. Algeri, New Orleans, Bahamas sono le tappe del percorso che precedono il suo approdo ad Haiti e l’incontro con lo zombie. Un percorso che permette all’autrice di penetrare progressivamente i misteri del Vudù e che, infine, fa di Zora Neale Hurston una sorta di Carlos Castaneda ante litteram. Ossia e in termini generali, un individuo ancestralmente lontanissimo dall’occidente cristiano, ma nato e cresciuto come un occidentale e che, a un certo punto della sua vita, decide di tornare alle proprie origini, lasciando che l’animismo, che porta scritto nel suo codice genetico più antico e profondo, lo guidi nella distruzione della patina razionalista della quale l’educazione ricevuta lo aveva ricoperto. I risultati, in entrambi i casi, sono spiazzanti giacché, proprio in virtù del fuoco generato dalle iniziazioni, questi individui, almeno in ottica razionalista, subiscono una regressione profonda che li riporta alla dimensione propria dell’infanzia. Una dimensione nella quale tutto è semplicemente come lo si descrive, la medesima nella quale il disegno non rappresenta un cappello, bensì un serpente che ha inghiottito un elefante. Ed è precisamente e solo in questa dimensione che Zora può incontrare i Loa.

Loa

La premessa è che nel Vudù il mondo divino è diviso in tre diversi livelli: Bondye, i Loa e gli spiriti dei defunti. Ora, Bondye (dal francese bon dieu) è la divinità suprema. Essa è considerata inaccessibile dai praticanti i quali, di conseguenza, volgono tutta la loro attenzione ai due livelli inferiori.

Nel Vudù, quindi, i Loa sono gli spiriti che svolgono il ruolo di intermediari fra gli dei e l’uomo. Di seguito tre esempi:

Veve di Papa Legba
Figura 2: Veve di Papa Legba
veve di Baron Ssamedi
Figura 3: Veve di Papa Ghede (Baron Samedi)
Damballah
Figura 4: Veve di Danbhala-Wedo o il Grande Serpente (padre dei Loa)

I simboli che vedete in Figura 2, 3 e 4 sono i veve degli spiriti di Papa Legba, Papa Ghede (Baron Samedi) e di Danbhala-Wedo. Affermo che i veve sono realizzati in forma di mandala, termine tantrico che qui è tradotto come indicato nel Tantraloka, ossia con manda che significa essenza e la che ha il senso di prendere. Ne consegue che sia i mandala, sia i veve sono descrivibili come artifizi per lo più grafici (ma non solo) capaci di raccogliere (e restituire) l’essenza di qualcosa. Nel rituale, quindi, i veve sono usati dal praticante come delle porte dalle quali far entrare (e uscire) il Loa invocato, il quale potrà entrare in un govi (piccole giare poste intorno all’altare) o direttamente nel corpo di uno dei partecipanti al rito. Da occidentali, quindi e in questo secondo caso, dovremmo parlare di possessione.

Papa Legba è presente i ogni cerimonia Vudù poiché senza la sua presenza non possono avvenire comunicazioni fra uomini e dei. Egli controlla ogni passaggio, porta, ingresso, recinto, crocevia. Così, gli officianti (houngan se maschi, mambo se femmine) durante il rito fanno risuonare un asson, un sonaglio fatto da una zucca nella quale è infilato un bastone e che contiene pietre (che simboleggiano gli antenati) e vertebre di serpenti. Quando l’asson canta, l’invocazione è in atto e gli spiriti scendono attraverso Danbhalah, guidati dal rispettivo veve. A questo punto, l’officiante, dopo avere chiesto il permesso a Legba, porta il Loa invocato dentro il rito battendo sul veve, per farlo agire secondo il suo desiderio.

In realtà, la cerimonia è assai più complessa e densa di significati ancestrali. Tuttavia, ho accennato brevemente ad alcuni elementi cerimoniali per evidenziare come l’intero rito, a partire dai veve, in realtà disegni una mappa. Il motivo lo vedremo fra poco. Prima, ci occuperemo un po’ più nel dettaglio degli zombies, un tema che nel centro-america ricorre spesso e in luoghi diversi, ossia il furto dell’anima.

Ad Haiti è chiamato furto del petit bon ange (piccolo angelo guardiano), ma la sua pratica è conosciuta e attuata con altre forme anche in Messico, Honduras, Guatemala, Belize, Brasile e, ovviamente, in tutte le Antille. In sostanza, accade che il brujo (termine spagnolo che indica un mago nero) rubi l’anima della vittima e che questa, di seguito, impazzisca o muoia.

Nota – Affermo che l’innesto dell’animismo africano sul genius loci stregonesco precolombiano ha generato qualcosa di realmente unico e strabiliante. Il Vudù è classificato come religione sincretica, per la sua capacità di integrare elementi di altre religioni (ad esempio, quella cattolica) senza rinunciare alla propria essenza. Tuttavia, ciò che sto ipotizzando prescinde da tali contaminazioni palesi e agisce a un livello più profondo. È come se il popolo nero, una volta giunto in America centrale, avesse realizzato, complice la condizione di schiavitù, una saldatura immediata con la morbosa ricerca del potere magico che caratterizzava le popolazioni precolombiane. Del resto, le chiavi biologiche del nuovo mondo sono state DMT e mescalina. In effetti, potrebbe essere il tema di un prossimo articolo.

Papa Ghede, anche conosciuto come Baron Samedi, è il Loa sotto l’egida del quale un Bocor crea uno zombie. Ora, io non ho mai partecipato a un rito Vudù, tuttavia le informazioni che, nel tempo, sono filtrate ci dicono che le forme esteriori sono quelle dell’invocazione, la quale è agita principalmente tramite la ritmica di tre tamburi nei riti denominati Rada e di due in quelli chiamati Petro. I Rada sono definiti riti freddi poiché veicolano un intento positivo (ad esempio, una guarigione). I Petro, probabilmente nati ad Haiti durante il servaggio del popolo nero, generano violenza, al punto che, nel caso di possessione diretta, il praticante deve stare molto attento giacché rischia seriamente di diventarne la vittima, nel senso che può ammalarsi o addirittura morire.

Ebbene, il Bocor che intenda procurarsi uno zombie deve, anzitutto, individuare la vittima, nonché avvicinarsi ad essa. Sembra che il momento migliore per il furto si presenti quando la vittima è nella sua casa. A quel punto, il Bocor opera il furto, succhiando l’anima e sputandola in una bottiglia. Senza la sua anima, la vittima non arriva al giorno successivo e, di conseguenza, è seppellita poiché ritenuta morta. Il Bocor, tuttavia, sa che ha un tempo preciso per evitare che la morte divenga definitiva perciò, quando il luogo di sepoltura è deserto, vi si reca, dissotterra il corpo, stappa la sua bottiglia e il cadavere, incapace di resistere al profumo della propria anima, si risveglia privo della propria mente e, di conseguenza, senza alcuna volontà. Da quell’istante e chissà per quanto tempo, quel corpo sarà lo schiavo del Bocor che potrà usarlo per svolgere qualsiasi compito.

Per chiarezza, io non lo so se gli zombies esistano realmente. In effetti, la foto prodotta da Zora Neale Hurston potrebbe essere un falso. Tuttavia, questo è un aspetto della faccenda che, nel complesso, ha una rilevanza marginale rispetto al tema vero, ossia la reale natura del rito stregonesco o, più in generale, religioso.

Ebbene, ho inserito il veve di Danbhala-Wedo perché ci aiuterà ad arrivare a tale natura. Danbhala-Wedo è il padre di tutti i Loa, è conosciuto come il dio serpente e se qualcuno ha letto Keter, forse riuscirà, confrontando i rispettivi simboli, a coglierne le similitudini. In specifico, Danbhala-Wedo è il Loa creatore, mentre Keter è la fonte del potere creativo. Così, i due serpenti di colore diverso (nel veve differiscono nel colore del capo) simboleggiano le due forze fondamentali (Rosso e Latone) dalle quali promana tutto ciò che esiste.

 

Keter
Figura 4: Keter

L’unica, fondamentale differenza sta nel fatto che Danbhala-Wedo (in termini generali, il “dio” di turno) è qualcosa di esterno all’uomo e abita un non meglio definito mondo degli spiriti, mentre Keter è una macchina (psichica) che sta dentro ogni individuo. Il primo è invocato, pregato, adorato. Il secondo è semplicemente usato. Il primo nasce da un meccanismo proiettivo, teso a portare il potere creativo (e la relativa responsabilità) fuori dall’individuo. Il secondo scaturisce da un atto di autoconoscenza e, quindi, di incremento consapevole che porta il singolo ad affermare se stesso come fonte del potere creativo e, di conseguenza, come detentore della relativa responsabilità.

Si tenga presente che questo vale per qualunque religione poiché ogni credente ha come motore primo della fede la paura del proprio potere creativo e, di conseguenza, delega quel potere a un “dio” posto all’esterno da lui. Il problema è che se, in questo modo, “dio” diviene il primo parassita, la produzione non si ferma. Ogni religione, infatti, conosce un enorme proliferare di forme ultramondane, tutte prodotte dalla morbosità della mente umana (non fa eccezione la religione cattolica con la sua brava coda di santi, cherubini, serafini, angeli, arcangeli e demoni infernali). Tuttavia, nelle religione animistiche, com’è il Vudù, probabilmente proprio grazie all’accettazione incondizionata e priva d’ipocrisia della morbosità umana, è agita una saldatura formidabile fra l’oggetto di fede e il singolo credente. Al punto che queste religioni appaiono come le uniche capaci di reggere ancora bene la “morte di dio” provocata dall’avvento del razionalismo. Viceversa, nel cristianesimo dove, grazie all’onnipresente senso di colpa, il rito è pura forma destituita da qualsiasi contenuto, è impossibile per il credente mantenere accesa una fede che, fatti due conti, non gli serve ad alcunché.

Il rito, quindi e come cennato precedentemente, è usato come una mappa, ossia come uno strumento che permetta all’officiante di muoversi con sicurezza nello sconfinato pantano denominato Seconda Attenzione (SA). E questo perché muoversi in SA significa spostare il Punto d’Unione (v. Spostamenti del Punto d’Unione). Intendiamoci, per una manovra simile una mappa è indispensabile anche per colui che  muove il proprio PU in modo volontario e consapevole. Tuttavia, sono diversi i presupposti, giacché colui che attua uno spostamento volontario si muove su un piano di consapevolezza e di conseguente assunzione di responsabilità. E ciò, oltre a consentirgli la massima libertà d’azione, tramite l’assunzione di responsabilità elide il senso di colpa poiché, sapendo che quanto sta facendo comporterà un prezzo, egli è pronto a pagarlo.

Viceversa, il credente resta imprigionato dentro il suo senso di colpa il quale diviene il motore stesso della sua fede, nonché base sulla quale costruire la propria mappa (il rito). Questo, in effetti, rende il suo viaggio più sicuro poiché l’intera responsabilità non è sua ma del “dio” (parassita) di turno che agisce per lui. Tuttavia, il prezzo di una simile scelta è altissimo, anzitutto perché il rito, poiché procedimento assiomatico, pone limiti ferali alla sua azione (in altre parole, la creazione di uno zombie, così come la guarigione da una malattia conduce a un unico risultato, tanto che quel rito non può essere usato per null’altro). In secondo luogo, la malleva di responsabilità è del tutto illusoria poiché il potere usato per raggiungere quel fine proviene comunque dall’officiante. Ne consegue che se l’individuo è al riparo dal senso di colpa,  che rimane inavvertito poiché mascherato dentro al rito, il debito contratto per l’uso del potere dovrà in ogni caso essere saldato. Quando e come questo avverrà, nessuno può dirlo perché troppe sono le variabili in gioco. Tuttavia, qualcuno pagherà.

Senza contare il fatto che colui che viaggia in modo consapevole e volontario ha solo se stesso, mentre un houngan o una mambo sono appesantiti da una miriade di oggetti, materiali e non, ai quali non possono rinunciare, pena la perdita di ogni privilegio.

Chiudo l’articolo ribadendo che, sul Filo del Rasoio, gli spostamenti volontari del PU sono deprecati poiché producono Falsa Personalità, a prescindere dal modo con il quale sono ottenuti. Perciò, quando si rendono assolutamente necessari, sono affrontati sotto le condizioni più rigorose e, in ogni caso, non sono mai cercati per soddisfare curiosità o, peggio, sete di potere.

 

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