Μοναχός

Premessa

Μοναχός (monacòs) è tradotto con frate o anacoreta ossia colui che, vivendo in solitudine, si dedica alla preghiera e al servizio di “dio”. Tuttavia, Aristotele sembra usarlo riferendosi a “dio” stesso che, di conseguenza, appare come solo (nel senso proprio di un essere solitario o in solitudine).

Per dirla in modo più diretto, quindi, l’idea della solitudine della Coscienza Creatrice sembra essere già presente nel mondo greco. Eppure, come dimostra lo Stagirita, con ogni probabilità si tratta di una consapevolezza assai antica, ereditata, proprio perché riferita a “dio”, ossia un parassita che, sin dal primo sorgere della Consapevolezza, l’uomo crea al duplice fine di delegargli il proprio potere creativo,  nonché l’insostenibile peso di questa propria solitudine.

Ciò che m’interessa, quindi, è il concetto di solitudine che, nel Filo del Rasoio, diviene qualità propria della Coscienza Creatrice qualora questa si trovi nello stato denominato Uno (descritto nel lavoro dal titolo Zero Point Energy).

In particolare, sostengo che è precisamente questo il punto di svolta, ossia il riferire quella solitudine a noi stessi piuttosto che a qualcosa di esterno a noi. È la prospettiva di questa specifica assunzione di responsabilità che porta l’individuo dentro la follia più distruttiva, oppure che lo trasforma in un guerriero, giacché la morte di “dio”, effetto immediato e diretto del nichilismo otto e novecentesco, ha trasferito sui singoli individui tale insostenibile peso. Insostenibile al punto che l’umanità non ha avuto altra possibilità che quella di precipitare nell’alienazione. La medesima follia che sta portando il genere umano alla sua fine.

Ho aperto questo blog con un lavoro dal titolo Apocalypse e, con ogni probabilità, mi appresto a chiudere la mia produzione (non il blog che spero possa essere tenuto vivo da altri dopo di me) scrivendo del medesimo tema:  la fine del tempo come frutto della follia e, dunque, come evento auto-realizzante all’interno di un’eggregora, quella umana, giunta alla fine del suo percorso. E, per farlo, intendo investigare sommariamente due dei protagonisti di questa drammatica vicenda: lo zero e l’infinito.

Zero e ∞

Nel V secolo a.c., Zenone di Elea propone il famoso paradosso di Achille e la tartaruga mentre, intorno al 300 a.c., Diogene di Sinope (il Socrate pazzo, tra i fondatori della scuola cinica) altro non fa che alzarsi e camminare per dimostrare la falsità di quel paradosso. Ecco, questi sono precisamente i due modi d’essere che hanno caratterizzato (e continuano a caratterizzare) l’atteggiamento della mente logica di fronte ai due spaventosi moloch che i moderni definiscono zero e infinito. Il primo è quello del curioso che vuole descrivere con gli strumenti del linguaggio binario ciò che descrivibile non è. Il secondo, certamente più intimorito, si limita a volgere lo sguardo altrove, rifugiandosi nel pattern “non è altro che”. Il primo è atteso dalla Follia, il secondo dalla Morte.

Nel 1670 Leibniz introduce il concetto di infinitesimo e del relativo calcolo. Concetto che genera tali e tanti problemi di ordine logico che, nel 1800, Augustin-Louis Cauchy e Karl Weierstrass trasformano l’infinitesimo in limite il quale porta a dotare di segno il concetto di infinito. Si consideri la seguente dimostrazione, estrapolata da Wikipedia, la quale tratta la divisione per zero in base al concetto di limite:

L’autore afferma che +∞ = -∞ dovrebbe essere considerato errato perché nasce dalla diversità di limite destro e sinistro in 0 … avete letto bene, lo zero (il nulla) possiede una destra e una sinistra … ma come fa qualcosa che non esiste a possedere qualsivoglia riferimento spaziale? Di conseguenza, quale senso dovrebbero poter avere le espressioni simboliche +∞ o -∞? L’estensore afferma che considerare un infinito privo di segno non sarebbe utile poiché, almeno in tale contesto, non compatibile con la struttura dei numeri reali di campo ordinato … laddove, in algebra, il campo ordinato è un campo dotato di un ordinamento totale.

Ci torneremo. Sta di fatto che, nel 1966, Abraham Robinson pubblica il suo Non-standard Analysis, ossia uno sforzo di rifondazione dell’analisi matematica, ripartendo dall’originale impostazione di Leibniz e dal concetto di infinitesimo. Per sommi capi, Robinson introduce gli infinitesimi come numeri dx tali che, per ogni n naturale > 0, avremo:

0 < dx < 1/n

Dove x è n numero reale, dx è un infinitesimo, mentre la somma dei due è detta numero iperreale (x + dx).

In sostanza, tale numero iperreale non sarà mai uguale a zero … sì, nel 1966, Abraham Robinson resuscita Zenone, Achille e pure la tartaruga.

Restiamo sullo zero. In matematica, lo zero è un numero che separa gli interi negativi da quelli positivi. Tuttavia, essendo sia gli interi negativi, sia quelli positivi degli enti che descrivono delle quantità o, se volete, delle posizioni, in matematica lo zero dovrebbe essere l’entità che indica niente, nulla o nessuna posizione. Attenzione, però, giacché qui l’enciclopedista infila un warning: zero va distinto da assenza di valore.

Ad esempio, in fisica, zero gradi Kelvin indicano una temperatura al di sotto della quale la materia non può scendere, giacché ogni particella è immobile. Altresì, zero gradi centigradi indicano la temperatura alla quale l’acqua cambia stato (da liquido a solido). Ancora, zero metri di altitudine indica che l’osservatore si trova sul livello del mare. In fisica, quindi, lo zero rappresenta per lo più una convenzione usata per indicare un particolare stato della materia o dell’osservatore rispetto a questa. Oppure, nella c.d. logica booleana lo zero è direttamente legato al funzionamento di una macchina fisica, un banco di memoria che restituisce solo due risultati: lo zero che ha il significato di spento, e l’uno che, viceversa, significa acceso. Pare ovvio che, in assenza di una specifica macchina che restituisca lo zero nei termini descritti, ogni discorso sia destinato a perdere qualsivoglia significato, giacché la conseguenza di una tale impostazione è che in assenza di un valore del parametro di turno, nulla si può dire.

Insomma, sembra evidente che il matematico, quando tratta lo zero, viva una sorta di disturbo di personalità multipla giacché, anche se non lo vorrebbe, deve continuamente confrontarsi con una descrizione la coerenza della quale, qualora tratti enti indescrivibili quali sono lo zero e l’infinito, vacilla a ogni piè sospinto.

Ricordo che negli anni 70, sia alle medie, sia alle superiori s’insegnava che qualsiasi numero diviso per zero restituisce infinito (giuro che me lo ricordo benissimo):

n : 0 = ∞

Ebbene, oggi questo non è più vero (alla faccia del rigore matematico). In specifico, ai ragazzi di prima media s’insegna che tale operazione non restituisce alcun risultato, poiché non esiste alcun numero che moltiplicato per zero dia n. In specifico:

n : 0 = risultato inesistente

In effetti, si giunge a tale soluzione trattando la divisione come inverso della moltiplicazione. Infatti, si afferma che non esiste alcun numero che moltiplicato per zero dia n (salvo perdere del tutto l’apparente coerenza qualora sia n = 0 giacché appare ovvio che, in tale caso e mantenendo la logica della divisione come l’inverso della moltiplicazione, 0 : 0 = 0). Il problema, quindi, è che una tale impostazione perde all’istante qualsiasi consistenza matematica nel momento nel quale tratta entità totalmente prive di limiti quali 0 e ∞ alla medesima stregua di qualsiasi altra grandezza discreta. Assai più semplice, logico ed elegante, sarebbe usare le medesime regole valide per la moltiplicazione. Così:

n x 0 = 0

0 x n = 0

0 : n = 0

n : 0 = 0

Nota – Esistono taluni ambiti matematici nel quali n : 0 = ∞ conserverebbe significato, come nella c.d. sfera di Riemann nella quale si considera un punto all’infinito come risultato dell’operazione 1 : 0 = ∞. Confusi? Pure io. Anche perché non si capisce cosa possa significare la proposizione “un punto all’infinito”. Se ricordate, il punto all’infinito è quello dove s’incontrano due rette parallele … salvo, poi, scoprire che nell’universo non esistono linee rette … ça va sans dire.

Tornando, quindi, alla questione prima descritta e relativa alla grottesca distinzione +∞ e -∞, si è visto come questa sia generata dal compulsivo bisogno di ordine che affligge la mente logica e dalla inevitabile dissonanza cognitiva che scaturisce qualora tale strumento che, per quanto meraviglioso, non può andare oltre la sua finitezza, si confronta con zero o infinito. In altre parole, la mente umana non ha alcuna possibilità di descrivere né l’infinito né, tanto meno, lo zero (che dell’infinito è il volto visibile e che solitamente definiamo Nulla o Vacuum).

Ordinamento totale? Di che? Mi chiedo di quanta paura e protervia sia necessario disporre per poter anche solo immaginare un ordinamento totale dell’incommensurabile (e indescrivibile) infinito, addirittura al punto da conferire un segno positivo o negativo al medesimo. Non so voi ma, per come la vedo io, questo è proprio ciò che accade quando la mente cerca di descrivere ciò che descrivibile non è in alcun modo. E, come affermato prima, tali sono sia lo zero, sia l’infinito. Paura ossessiva e compulsiva della morte, solo questo arma la mente di una simile hybris (ὕβϱις). Paura che diviene tracotanza e convinzione assoluta di poter spiegare qualsiasi cosa con il solo aiuto del linguaggio binario. Infine, patologica compulsione che spinge il singolo a voler concettualizzare qualsiasi oggetto, anche ciò che descrivibile non è per nulla.

Per pura curiosità, riporto di seguito la definizione del termine concetto, fornita dall’enciclopedia Treccani:

Pensiero, in quanto concepito dalla mente, più in particolare idea, nozione esprimente i caratteri essenziali e costanti di una data realtà che si forma afferrando insieme (lat. concipĕre = cum-capĕre, comprehendĕre) i vari aspetti di un determinato oggetto che alla mente preme aver presenti nel suo complesso.

Ora e a parte l’evidente errore semantico (la mente non comprende, ma descrive), il semplice meccanismo invocato dagli enciclopedisti richiede che il concetto sia anzitutto un pensiero. Dunque, la domanda è davvero banale: come si può pensare (rectius: descrivere) un’assenza, ossia qualcosa che non esiste affatto e che, proprio per questo, non può in alcun modo essere descritto? Vi viene da ridere? Ne avete facoltà.

Lo zero, infatti e in un’accezione assoluta, è un’assenza totale. Quando proferiamo il lemma zero, a essere evocato è il Nulla (non a caso qualsivoglia numero moltiplicato per zero dà zero, così come qualunque ente diviso per zero dovrebbe fare lo stesso). Lo zero è dielettricità totale, ossia completa mancanza di polarità. Così, lo zero, essendo oltre la polarità, è totalmente indescrivibile. Ergo, del tutto impermeabile all’investigazione logica.

Similmente, per il concetto di infinito. Si consideri il seguente assioma:

la descrizione di un oggetto qualunque è totalmente determinata dal sistema al quale quell’oggetto appartiene.

Si pensi, ad esempio, al primo postulato di Euclide: tra due punti distinti di un piano passa una e una sola retta. Cosa vera se il sistema di riferimento è un piano. Cosa falsa quando tale sistema diventa una sfera. Ora, se pensate che nell’universo non esistono piani e/o linee rette (la luce procede per linee curve determinate dalla gravitazione), capite bene come l’intera geometria euclidea sia una finzione che funziona (carino il calembour) solo qui, all’interno della microscopica realtà nella quale procedono le nostre povere vite.

Ancora, si pensi al limite della velocità della luce descritto dalla relatività generale. Limite che, qualora il sistema di riferimento non sia più l’universo nel quale esistiamo, ma un Multiverso a undici dimensioni (che, in ipotesi, potrebbe contenere il nostro universo), scompare giacché assorbito dalla velocità alla quale le informazioni viaggiano nel Campo Endecadimensionale (v. Il Campo Endecadimensionale e Zero Point Energy).

Ora, conseguenza immediata e diretta del suddetto assioma sarà un altro assioma:

un sistema privo di limiti (rectius: infinito) non può in alcun modo essere descritto.

Ne consegue che assegnare un segno positivo o negativo all’infinito è un puro delirio autoreferente. E la prova potrebbe tranquillamente stare nella risposta alla seguente domanda: con la matematica, l’uomo ha risolto il problema della morte? Mi pare di no, in effetti.

In realtà, basterebbe ammettere che zero e infinito sono la medesima cosa e tutto tornerebbe ad avere almeno una parvenza di senso compiuto.

In questo modo, lo zero tornerebbe a essere la creazione a zero dimensioni che viola il principio di indeterminazione, giacché se ne conosce la posizione (nel centro del numeri reali o immaginari o surreali o iperreali … quel che vi pare) e l’energia (zero).

In questo modo, lo zero diverrebbe ciò che, in realtà, è: il Nulla, ossia il volto dell’indescrivibile infinito (l’Uno).

La solitudine eterna

Infine, siamo giunti al punto che questo lavoro intende cogliere: uno e infinito sono entrambe grottesche rappresentazioni del Nulla, ossia dell’Uno così come sperimentato dalla mente logica. In effetti, questo è il vero punto di crisi che, da solo, è stato (ed è) capace di generare il dilagare della follia che affligge l’umanità e che la sta portando alla sua fine.

Il Nulla (peraltro, ormai tendenzialmente negato dalla moderna fisica quantistica, a sua volta incapace di  sganciare se stessa dal dogmatismo del principio di causa/effetto) è tutto ciò che, come esseri duali, possiamo testimoniare dell’Uno, ossia dello stato nel quale noi stessi esistiamo per il Tempo di Planck (5,391 × 10−44 sec.), ma del quale non possiamo ricordare alcunché, data la sua totale indescrivibilità da parte della mente logica (i tentativi generano i mostri sopra descritti).

Tuttavia, da quella non rendibile esperienza, riportiamo la colpa di avere perduto la capacità di comprendere ogni cosa. Capacità che deriviamo (che derivo, giacché lì non siamo divisi) dal fatto che nell’Uno gli opposti sono uniti … luce e nerezza sono un’unica cosa, totalmente comprensibile e, proprio per questo, assolutamente indescrivibile. Tuttavia, il prezzo di una tale comprensibilità è la solitudine eterna … lì, nell’Uno, sono μοναχός … sei μοναχός … per l’eternità. Un’indescrivibile, infinita entità (che per comodità indichiamo con il nome di Coscienza Creatrice), immobile e sola che continuamente si lacera, creando Multiversi nel tentativo di trovare una via d’uscita a questo folle altalenare fra indescrivibilità e inconoscibilità. Come può un uomo comune sopportare un tale peso? Non può, semplicemente. Per questo e per null’altro, il primo atto dell’uomo dopo l’ingestione delle Chiavi Biologiche è stata l’invenzione di un “dio” che si facesse carico di quell’orrore. Per questo e per null’altro, dopo la morte di “dio”, l’umanità è impazzita decretando la propria fine, perché il peso di quella solitudine non lascia che due alternative: l’autodistruzione o l’edificazione di un Doppio Immortale per tentare di risolvere questa Danza Folle.

 

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