Nuclei Alogeni ed Evoluzione

Evoluzione a imbuto

Premessa

Definirei la speculazione sottesa al Filo del Rasoio un atto conoscitivo di meta-fenomeni. Siccome, poi, tali meta-fenomeni sono tutti, senza eccezione, ricondotti alla sfera psichica, il concernente processo conoscitivo potrebbe essere a sua volta definito come una sorta di psico-empirismo induttivo (con buona pace di Bertrand Russell e d’ogni tacchino eventualmente interessato). Questo perché:

  • Si tratta di un processo conoscitivo precipuamente rivolto alla dimensione psichica;
  • È un processo conoscitivo che avviene a posteriori;
  • Offre una descrizione in chiave strettamente probabilistica dei suddetti meta-fenomeni per i quali, di conseguenza, è sempre possibile una ridefinizione qualora l’attuale rappresentazione si dimostri incompleta o errata o anche solo non conveniente;
  • Infine, vagliato che la sfera psichica comprende sia una dimensione soggettiva (individuale), sia oggettiva (collettiva), potremmo considerare l’intero ambito conoscitivo del Filo come formalmente metapsichico o, più propriamente, panpsichico.

Ora, sono persuaso che i Nuclei Alogeni (NA) siano fra le determinazioni più importanti alle quali ha condotto l’indagine espressa dal Filo del Rasoio. Oggetti che mi piace qualificare come fenomenali e che il presente lavoro intende approfondire grazie a una descrizione rigorosamente induttiva e in chiave sostanzialmente psicodinamica.

Monadic Cloud e Nuclei Alogeni di specie

Sembrerebbe che, all’interno dell’impermanenza duale, gli unici oggetti permanenti possano essere solo i Nuclei Alogeni, ossia oggetti sui quali grava il compito di attraversare i millenni per tentare di trovare soluzione alla Danza Folle. Questo perché i NA sono oggetti capaci di immagazzinare consapevolezza e, grazie a questa, tornare uguali alla forma e alla dimensione assunte durante l’esistenza dell’ultimo Burattino. Ne consegue che sia il Monadic Cloud, sia il Burattino, cessato il loro compito, dovrebbero tutti, senza eccezione, tornare polvere poiché il compito di conservazione dell’informazione è proprio esclusivamente dei Nuclei Alogeni.

Se, tuttavia, ciò pare senz’altro riferibile alla dimensione umana, per il mondo animale e vegetale le cose sembrerebbero poter stare in modo diverso. In buona sostanza, l’idea è che, con la sola eccezione dell’essere umano, ciascuna specie vivente possa condividere un proprio, esclusivo Monadic Cloud in modo che, ad esempio, ogni quercia rossa (quercus rubra) sia il Burattino dell’unico MC padre di ogni quercia rossa esistente sul pianeta. Così per ogni specie vegetale, così per ciascuna specie animale.

In un simile scenario, pare opportuno usare la definizione specifica NA di specie. Ossia, oggetti che, sin dai primordi, hanno salvato ogni informazione relativa alle diverse strategie di sopravvivenza. E sembra ci sia davvero poco da discutere giacché, per quanto primitive, tali informazioni hanno costituito una configurazione primordiale di Consapevolezza la quale è giunta, nella forma fisica di DNA non codificante, sino alla prima Eva (verosimilmente, un Sapiens con 46 cromosomi).

È chiaro, almeno dal punto di vista del Filo, che in tale scenario le Chiavi Biologiche hanno giocato una parte eccezionalmente importante giacché, proprio in virtù del fatto che scatenando nei Sapiens la crescita ipertrofica della neocortex e inducendo una produzione consapevole del tutto fuori scala (rispetto a quanto avvenuto durante i precedenti 3.9 miliardi d’anni, s’intende), nel medesimo istante (e diremmo necessariamente) hanno determinato un assetto sino a quel momento del tutto sconosciuto e all’interno del quale un singolo MC sostiene un numero limitato di Burattini, tutti appartenenti alla specie umana.

Pare, quindi, sensato che la stessa prima Eva, nell’istante nel quale incontra le Chiavi, disponga già di un NA di specie giacché tutti i Sapiens, al pari dei Neanderthal, degli Erectus o di qualsiasi altro animale, sino a quel momento esistevano sotto l’egida di un proprio e unico Monadic Cloud.

Sembra, quindi, conveniente spostare la formazione dei primissimi NA al tempo della comparsa della vita sulla terra, in tal modo pensando l’evoluzione come il frutto del lavoro di questi NA di specie i quali hanno mantenuta l’informazione acquisita attraverso l’avvicendarsi delle esistenze dei diversi organismi biologici.

Questo sposta l’intera evoluzione dal piano fisico a quello psichico, asservendola non tanto alla sopravvivenza, quanto all’incremento della Consapevolezza. Ed è precisamente in quest’ottica che ci apprestiamo a ficcare il naso dentro quello che, sino a qualche tempo fa, era ancora indicato come DNA spazzatura e che ora prende il nome, decisamente meno orrendo, di DNA non codificante.

Gli Enigmi K, C e N

Si è soliti affermare che il DNA non codificante è pari a circa il 98.5% dell’intero genoma umano. In realtà, una fetta consistente (26%) di tale parte è costituta dai c.d. introni. Per farla breve, un gene è fatto di introni e di esoni e, almeno in apparenza, solo questi ultimi codificano. Tuttavia, solo in apparenza giacché, quando s’è provato a danneggiare la regione intronica di una pianta, l’intero processo di trascrizione è stato compromesso. Per questo non sembrerebbe del tutto corretto ricomprendere gli introni fra il DNA non codificante. In ogni caso, resta un considerevole 72.5% per il quale appare impossibile formulare una classificazione funzionale.

Ora, la scoperta del DNA non codificante ha posto alcuni problemi interessanti:

  • Enigma del valore K – Il valore K indica il numero di cromosomi che caratterizzano una singola specie. Ebbene, tale numero non è correlato alla complessità dell’organismo. Ad esempio, nell’uomo sono 46, nella Lysandra atlantica (una farfalla) sono 250 e nell’Ophioglossum reticulatum (una pianta) sono oltre 1200.
  • Enigma del Valore C – Il valore C (o C-value) indica la quantità di DNA contenuta nel nucleo di una cellula aploide e si esprime in picogrammi (pg) o, anche in paia di basi (Mbp). Similmente al caso precedente, il problema è posto dal fatto che la dimensione del genoma non è correlata alla complessità dell’organismo. Ad esempio, se nell’uomo il C-value è pari a circa 3.2 pg, in un pesce come il Protottero etiopico è di 133 pg, mentre nelle amebe è sino a 200 volte la quantità di DNA del genoma umano
  • Enigma del valore N – Il valore N esprime il numero dei geni che caratterizzano una singola specie. Anche qui, tale numero non è correlato alla complessità dell’organismo. Ad esempio, se il genoma umano presenta circa 25000 geni, quello del riso ne ha 65000.

Ora, si osservi il grafico in Figura 1:

Porzione non codificanti dei genomi eucarioti
Figura 1: https://studylibit.com/doc/6673939/il-genoma-dimensioni-ed-organizzazione

Nel grafico, E. coli sta per Escherichia coli un batterio che vive nella parte inferiore dell’intestino di animali a sangue caldo, S. cerevisiae sta per Saccharomyces cerevisiae un fungo usato per la produzione del lievito di birra e C. elegans sta per Caenorhabditis elegans un verme nematode fasmidario. L’ultima colonna è riferita all’essere umano.

In sostanza, ciò che si vede è un rapporto di proporzionalità diretta fra complessità dell’organismo e dimensione del DNA non codificante. Impressive. Ha tutta l’aria di una specializzazione progressiva con relativa redistribuzione delle risorse per poterla gestire. In effetti, in genetica vale il principio che tanto più complesso è un genoma, tanto maggiore è lo sforzo, in termini di lavoro e risorse ingaggiate, necessario per definirne (e affinarne, a mente dell’I-motif DNA) l’ informazione.

In altri termini, questa è l’idea, minore è la complessità dell’organismo, maggiore sarà il ventaglio di possibilità che questi mantiene aperto giacché necessita di pochissima energia per gestire il tutto. L’idea è che, più l’organismo è semplice, più necessita di informazioni per evolvere.

L’obiezione, soprattutto nel caso dell’Escherichia coli è che, in realtà, si tratta di un organismo già perfettamente evoluto e del tutto adatto a vivere nella propria nicchia biologica (proprio come una zanzara o uno squalo, per dire). Eppure, se restiamo fedeli alla nostra primitiva induzione, ossia che il più denso procede dal più sottile, allora ciò che dà forma al DNA dell’Escherichia coli è solo più un Nucleo Alogeno di specie.

In un simile scenario, l’eventuale NA formatosi grazie all’evoluzione e che ha portato alla modellazione di un batterio completamente adattato, resterebbe eguale a se stesso per sempre, compreso il ventaglio di molteplici (ancorché non sfruttate) possibilità evolutive. E avrebbe senso giacché questo consentirebbe alla vita di proseguire anche nel caso di estinzione delle specie più complesse (e, proprio per questo, più fragili).

Di conseguenza, la speciazione sarebbe descrivibile come una sorta di imbuto nel quale le forme di vita più complesse occupano la punta più estrema e stretta (vedi l’immagine di copertina). Forme nelle quali la Consapevolezza ha subito una modificazione progressiva e che ha avuto sempre meno bisogno di alternative evolutive, sino al punto di non averne per nulla necessità. In effetti, nell’uomo, il costrutto olistico più alto e potente (sì, non in tutti gli esemplari, ma questa è un’altra storia), l’evoluzione è semplicemente cessata dal momento nel quale la neocortex ci ha reso capaci di adattare l’ambiente a noi stessi.

Pulsione

A ben guardare, poi, tutto quanto sopra sembra coerente con il concetto di  Consapevolezza (almeno come sin qui definita). In specifico, se è vero che si è sempre enfatizzata la Consapevolezza come frutto della sofferenza umana, dando per scontato il presupposto che solo l’essere umano è capace di diventare consapevole, in realtà, nel momento nel quale affermiamo la sostanziale identità fra Consapevolezza e informazione, stiamo descrivendo il parametro in base al quale l’evoluzione non procede allargandosi ma, al contrario, restringendosi a un’unica specie: quella umana. Facendolo, peraltro, sempre sotto l’impulso della sofferenza.

Nei fatti, quando una nuova informazione diviene disponibile a qualsivoglia organismo biologico, per prima cosa questa scombina l’omeostasi (intesa come tendenza naturale al raggiungimento di una stabilità complessiva dell’organismo stesso). Ciò induce l’organismo biologico a processare opportunamente l’informazione al fine di ristabilire tale omeostasi, recuperando l’equilibrio viscerale. Il punto, tuttavia e come rimarcato, è che questo è vero per un essere umano, così come per un pesce rosso o un paramecio. In altre parole, la base totalmente meccanica della Consapevolezza, propria degli organismi più semplici, genera una pulsione specifica che, in primissima istanza, induce l’organismo a sopravvivere.

Pare evidente, quindi, che uomo, pesce rosso e paramecio siano sospinti dalla sensazione di sofferenza derivante dalla perdita di omeostasi, a sua volta proveniente da ogni nuova informazione. Così com’è altrettanto evidente che l’elaborazione positiva di un tale squilibrio (anzitutto viscerale ma nell’essere umano anche psichico) si concreti in una specifica soluzione. Ciò a dire che nella cristallizzazione di una particolare Consapevolezza, che in qualsivoglia vegetale o animale sarà di tipo strettamente somatico, nell’essere umano acquisirà un’ulteriore e specifica forma verbale (ad esempio, se accade questo, allora fai quest’altro). In ogni caso, sempre di informazione cristallizzata (Consapevolezza) si tratta.

GOC

Il problema, quindi, non sta tanto nella Consapevolezza in sé (la quale rimane pura informazione cristallizzata), bensì in due elementi molto precisi e nel lavoro che, in sequenza, questi hanno compiuto per giungere al perfezionamento della Grande Ottava della Consapevolezza (GOC):

  • Nuclei Alogeni di specie i quali, durante un periodo di circa 3.9 miliardi di anni, hanno adempiuto al compito di salvare le informazioni sulle diverse strategie di sopravvivenza;
  • Nuclei Alogeni individuali + Neocortex, ciò a dire la formidabile sinergia scaturente dal VI salto evolutivo (L’Ultimo Paradigma, Le Chiavi Biologiche) che, nel corso degli ultimi trentacinquemila anni, ha portato a definitiva maturazione la GOC.

In particolare, la neocorteccia (o terzo cervello) è un organo capace non solo di una sintesi olistica (Ego) sconosciuta nel mondo animale, ma anche di prestazioni logiche talmente potenti da togliere, di fatto, la specie umana dal processo evolutivo poiché, a differenza di ogni altra forma di vita, la razza umana ha il potere di adattare a se stessa l’ambiente nel quale vive e non viceversa. Tuttavia, il prezzo da pagare è elevato giacché questo sposta il livello di sofferenza su un piano mai conosciuto prima. E questo sia, almeno in prima battuta, grazie all’idea della morte (che, per gli esseri umani, diviene autentica ossessione), sia per l’effetto del senso di colpa che, come detto altrove, preesiste (poiché deriva dall’incapacità di comprendere ciò che andiamo creando) ma diviene percepibile solo grazie al terzo cervello.

Il punto, dunque sta proprio in tale elevatissimo livello di sofferenza il quale origina inevitabilmente un’ipertrofica produzione di Consapevolezza la quale, a sua volta e gioco forza, alimenta i NA di specie già presenti nei Burattini trasformandoli anzitutto in Nuclei Alogeni di prima generazione e, di seguito, dando forma a quelli di seconda generazione. Tanto che, nel volgere di soli trentacinquemila anni, il genere umano è stato capace di portare a definitvo perfezionamento il suo compito: condurre a risolutiva maturazione la GOC.

9 Likes