L’Informazione Analogica

Bach

Premessa

Mi appresto a dar voce a una pulsione pura. Da uditivo (in senso strettamente piennellistico), amo profondamente la musica e, per quanto consapevole che questa cosa possa non essere di alcun interesse per alcuni lettori, intendo scriverne al fine di chiarire il più possibile il concetto di informazione analogica. Sotto questo profilo, quindi, il presente lavoro descrive (abbastanza compiutamente) chi lo ha scritto. Non che i lavori precedenti abbiano fatto qualcosa di diverso. Tuttavia, qui di più.

Di seguito, quindi, troverete la mia personale descrizione di alcuni autori e brani musicali e del modo con il quale i medesimi trattano l’informazione analogica. Mi rendo perfettamente conto che tutto ciò cozzerà contro convinzioni tanto profonde quanto legittime. Tuttavia, non ho alcuna pretesa di affermare verità assolute. In caso contrario, avrei fatto il critico musicale.

Buona lettura.

L’informazione analogica

La musica è emozione pura. Essa, almeno nella sua forma primigenia, parla con l’esclusivo linguaggio del centro emozionale veicolando informazioni totalmente analogiche.

Ciò significa che ogni nota di un qualsivoglia spartito musicale veicola un’informazione che ha pochissimo a che fare con la logica. In realtà, che il pentagramma (e le note che vi trovino albergo) sia un parto genuino della mente logica è fuor di dubbio e, sotto tale profilo, la scala temperata, in occidente formalizzata da Andrea Werckmeister alla fine del 1600 (altrove le scale mutano, ma non la ratio che le ha generate), con ogni probabilità è fra gli sforzi consapevoli più armoniosi e potenti ai quali la razza umana abbia mai dato forma.

Uno sforzo che tuttavia non può andare oltre il ruolo di carrier dell’emozione che il suono genera in chiunque lo ascolti. Di fatto, la musica codificata è un linguaggio logico e, sotto tale profilo, una qualsiasi nota musicale, se presa da sola e per l’orecchio più fine, può avere il significato di un fonema. Tuttavia, questo è il limite epistemologico proprio del linguaggio musicale giacché un insieme consequenziale di note (melodia), reso coerente da una serie di rapporti sonori reciproci (armonia) e scandito da un’altrettanto coerente scansione temporale (ritmo), genera un’informazione analogica compiuta, un autentico olismo, ossia un tutto unico assai più grande della somma delle sue parti e che può essere decodificato in senso logico solo molto parzialmente.

Il grosso dell’informazione, infatti, resta dominio della percezione emotiva, qualcosa che non può essere descritto ma solo esperito. Qualcosa che può farti piangere, ridere, danzare, godere o soffrire. Infine, qualcosa che può essere totalmente vissuto solo a livello emotivo o fisico.

Più volte, ascoltando un brano musicale, mi sono ritrovato a versare calde lacrime o a divenire preda del desiderio di muovere gambe e bacino e braccia e spalle … raramente m’è accaduto di dar la stura a elucubrazioni mentali di qualsivoglia tipo. In effetti, mai m’ha sfiorato il pensiero di fare critico musicale.

Di conseguenza, prego vivamente il lettore (ammesso e non concesso che sia ancora in atto di leggermi) di non ritenere quanto segue un esercizio di critica musicale, perché non lo è per nulla.

L’essenza

Ritengo Bach la cuspide assoluta dell’intero spazio-tempo musicale mondiale. Ciò che mi ha sempre rapito del suo modo di declinare l’emozione è il rigore che ha messo in ciascuna partitura, dalla più banale alla più complessa. Di fatto, penso sia l’autore che più di tutti mi ha mostrato con un’evidenza che non lascia spazio a dubbio alcuno il significato più profondo di informazione analogica.

Ricordo, in proposito, un fatto risalente a diversi anni fa. Andammo a teatro ad assistere a un’esibizione del grande violoncellista Mstislav Leopoldovich Rostropovich. Eravamo quattro e occupavamo altrettanti posti al secondo o terzo palco (non ricordo con precisione), ma piuttosto vicino al lato sinistro del palcoscenico.

Il maestro attaccò la Chaconne dalla seconda partita per violino solo di Bach, ovviamente trasposta per il violoncello. Ebbene, mi immersi talmente tanto nell’esecuzione che, sull’ultima nota suonata da Rostropovich, esplosi in un bravo! Seguì l’applauso di tutto l’auditorio, con il maestro in piedi che ringraziava e che, dopo un qualche attimo, rivolse il suo sguardo verso di me, sorridendo e inchinando leggermente il capo in segno di apprezzamento.

Non conosco a memoria la Chaconne perciò non posso in alcun modo affermare di avere compiuto quel gesto in modo volontario. Ero semplicemente, totalmente fuso con l’informazione veicolata dalla partitura. Con ogni evidenza, la maestria di Rostropovich mi guidò, tuttavia ciò non basta a spiegare il mio gesto poiché il vero segreto fu che in quell’occasione la mia mente (Ego) era spenta, inattiva e che, per questo, non ebbe alcun modo di interferire su una decisione che fu puramente emotiva. IO stava dentro il Doppio Mnestico e da quella posizione privilegiata fu capace di esperire l’informazione analogica veicolata dalla partitura in modo diretto e completo. Non ho trovato l’esecuzione di Rostropovich, perciò vi propongo quella di Komachov:

Nota – Non amo la lirica (così come l’operetta) giacché, con l’innesto della parola, la ritengo un linguaggio ibrido e assai poco comprensibile. La lirica è sentimento e personalmente, amando le sole emozioni, tendo a disprezzare i sentimenti poiché li vivo come contaminazioni mentali di qualcosa (il suono) che, come detto sopra, può essere descritto solo assai parzialmente dal linguaggio binario. Tuttavia, sono letteralmente rapito dal suono della voce umana che, come veicolo di informazioni analogiche, ritengo superiore a qualunque altro strumento esistente. Sotto questo profilo, quindi, molto meglio la canzone nella sua forma di micro-verso chiuso e autosufficiente, nel senso proprio di un’unità informazionale completa e auto esplicativa che, per esistere, non ha alcun bisogno delle mostruosità che vanno sotto al nome di recitativi.

Infine e per come la vedo io, la partitura è unicamente il modo per rendere ripetibile una determinata emozione, soprattutto quando tale emozione è stata resa la prima volta dal genio più puro, ossia quando chi l’ha forgiata si trovava nel suo DM.

Un esempio? Il secondo movimento (allegretto) della sinfonia n. 7 in La maggiore, op 92 di Ludwig van Beethoven:

Osservate la mimica del direttore d’orchestra, l’austriaco Carlos Kleiber (1930-2004), considerato fra i più grandi di tutti i tempi. Egli è il medium perfetto fra la parte meccanica (logica) dell’informazione, ossia l’orchestra e l’espressione compiuta dell’incredibile universo emotivo di Beethoven.

Kleiber appare estatico, conosce a memoria la partitura tanto che, per buona parte dell’esecuzione, tiene gli occhi chiusi. È letteralmente rapito a un livello che non ha alcunché di logico … sta nel suo DM e, da lì, dirige la macchina (l’orchestra) in modo tanto sublime quanto distante. Non ha alcun inciampo fisico al quale badare, non deve pigiare tasti, vibrare corde o ance, non deve percuotere tamburi poiché a tutto ciò pensano gli orchestrali. Perciò può abbandonarsi totalmente alla totalità del significato dell’informazione analogica partorita dal genio tedesco. E lo stato emotivo vero di Kleiber traspare in modo spiazzante dai suoi gesti. Il suo corpo parla per lui e, tuttavia, nessuno di noi potrà mai conoscere cosa, in realtà, il grande direttore d’orchestra provasse in quegli istanti.

Forse perché il secondo movimento della sinfonia n. 7 di Beethoven veicola un eroismo ultramondano? Qualcosa che non potremmo trovare mai in alcun luogo? Già, parrebbe una buona chiave di lettura: il cuore profondo della grande musica non è e non potrà mai essere di questo mondo (rectius: del mondo della logica) giacché, molto semplicemente, trascende il linguaggio della mente il quale pretende che ciascun elemento di una qualsivoglia idea sia separabile da ogni altro. Cosa impossibile all’interno di un’informazione analogica. E questo è vero sempre, a prescindere dalle epoche e dagli stili.

Un esempio? Alvin Lee (Ten Years After) a Woodstock, nel 1969. Duecentomila persone inchiodate a vederlo/ascoltarlo, senza smartphone o social media sui quali condividere alcunché. Il pezzo dura quasi 11 minuti e presenta una parte centrale nella quale Lee usa la voce come fosse il latrato di un cane o di un lupo. Un exploit rimasto a pieno titolo fra i grandi miti della storia del rock e che, di fatto, potremmo annoverare fra le grandi ipostasi dell’urlo infinito [cit.]. Anche questa sembrerebbe una definizione compiuta, eppure nemmeno questa lo è giacché I’m going home, come ogni informazione analogica, va oltre il descrivibile in modi che sono davvero impensabili.

La dodecafonia

La prova, a mio avviso più compiuta, di quanto esposto sino ad ora è costituito dalla c.d. dodecafonia, ossia la tecnica di composizione musicale ideata da Arnold Schönberg (1874-1951).

La chiave di volta di tale tecnica sta nell’equivalenza armonica dei dodici semitoni della scala temperata. Senza entrare in ambito troppo tecnico, ciò che accade in dodecafonia è una dissoluzione assoluta dell’armonia classicamente intesa grazie all’introduzione di una libertà di linguaggio del tutto priva di limiti.

In termini strettamente filosofici, affermo che la dodecafonia è, in ambito musicale, la formalizzazione del nichilismo otto-novecentesco. Di fatto, però e per come la vedo io, la dodecafonia è il tentativo fallito di superare il limite conoscitivo sopra descritto attraverso l’abolizione di ogni regola armonica. Di seguito, la Suite per Piano Op. 25 – Parte II di Arnold Schönberg:

In tutta franchezza, non ho la minima idea rispetto a quali fossero le reali intenzioni del compositore quando iniziò ad assemblare le prime partiture dodecafoniche e, altrettanto francamente, nemmeno m’interessa. Ciò che, però, io vedo è il tentativo, con ogni probabilità del tutto inconsapevole, di superare i limiti epistemologici sofferti dalla scala temperata in sede di decrittazione dell’informazione analogica (leggi: esecuzione della partitura). In sostanza, l’idea inconscia che liberando il linguaggio dai vincoli armonici (I, III e V grado … Do, Mi, Sol … Re, Fa, La … etc.), l’emozione sarebbe potuta trasparire in modo assai più chiaro e definito. Tentativo fallito, in effetti, con l’aggravante che la dodecafonia, di là dai ristrettissimi circoli di nerds che forse ancora la venerano, non se la fila proprio nessuno.

Qui e ora

Chiudo il pezzo con un autentico genio del tempo attuale, um violonista brasileiro che, a mio avviso, è l’incarnazione fisica del medesimo NA padre del grande Olmeco del sito di La Venta conosciuto come Monumento 1:

Olmeca_head_in_Villahermosa
Figura 1: Messico – La Venta – Monumento 1

Il suo nome è Yamandu Costa e suona una chitarra a sette corde come un autentico deva. Per inciso e in relazione alla sua sorprendente somiglianza con Monumento 1, l’ho provocato in modo diretto sul suo canale YT, ma senza ottenere risposta. Chissà, forse sa bene d’essere figlio di quello specifico NA ma non gli va proprio di ammetterlo.

A parte questo, Yamandu Costa sfoggia una tecnica tanto potente quanto anarchica e, mi verrebbe da dire, atemporale. Al punto da farmi caratterizzare quest’ultimo frammento del lavoro come qui e ora. Di fatto e di là da qualsiasi considerazione storica e/o geografica, penso che Yamandu Costa sia capace di portare l’ascoltatore a grande profondità nel mistero dell’informazione analogica. Per proporvelo, ho scelto la sua interpretazione di un tango argentino molto famoso: El Choclo. Se del caso, buon ascolto.

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