Dejà Vu

Cos’è un dejà vu? Molti di noi l’hanno sperimentato tanto che, secondo uno studio del 2003 dello psicologo Alan S. Brown (Southern Methodist University), il numero delle persone che ne hanno fatta esperienza, almeno una volta nella vita, si aggira intorno al 60% della popolazione mondiale.

Un fenomeno talmente comune e ricorrente che, nonostante non sia compreso in alcun modo, è banalizzato dal pensiero dominante in modo francamente imbarazzante. Di seguito un frammento tratto da Wikipedia e che descrive bene quanto ho appena affermato:

Il déjà-vu … è un fenomeno psichico rientrante nelle forme di alterazione dei ricordi (paramnesie): esso consiste in fatti totalmente casuali di cose, animali o persone che entrano in contatto con il soggetto, al quale provocano la sensazione di un’esperienza precedentemente vissuta, già vista appunto. Seppur impropriamente, viene anche chiamato «falso riconoscimento».

Evito un confronto fra la versione in italiano e quella in inglese (non vorrei fare brutte figure a causa del mio inglese un po’ guascone). Tuttavia, vorrei evidenziare quanto e come, almeno dal mio punto di vista, la descrizione sia sballata. Infatti, proseguendo nella descrizione, Wikipedia così recita:

L’esperienza del déjà vu è accompagnata da un forte senso di familiarità, ma di solito anche dalla consapevolezza che non corrisponde realmente ad una esperienza vissuta (e quindi si vive un senso di “soprannaturalità”, “stranezza” o “misteriosità”): l’esperienza “precedente” è perlopiù attribuita ad un sogno. In alcuni casi invece c’è una ferma sensazione che l’esperienza sia “genuinamente accaduta” nel passato.

Non citerò oltre (chi volesse leggersi il resto, può farlo qui) poiché quanto riportato mi sembra un perfetto esempio di come sia possibile descrivere qualcosa che non si è compreso affatto, con l’intento di convincere chi legge che si tratti della verità (praticamente, una supercazzola).

Anzitutto, vi è una rappresentazione falsa del fenomeno perché si vorrebbe far passare l’informazione che, nella maggioranza dei casi, il “senso di familiarità” sia accompagnato dalla consapevolezza che quanto si sta sperimentando non corrisponde realmente a un’esperienza vissuta, mentre solo in alcuni casi ci sarebbe la sensazione di aver “genuinamente” vissuto il fatto. Questo è falso, poiché chiunque ha vissuto un dejà vu, sa che la forza del fenomeno deriva proprio dalla convinzione di aver già vissuto quell’esperienza.

Vi è, quindi e con evidenza, un motivo preciso che giustifica un tale bisogno di travisare la descrizione dell’evento. E un tale motivo risiede nel fatto che se la certezza di aver già vissuto quell’esperienza fosse descritta come la regola, sarebbe assai arduo includere il dejà vu nella categoria delle c.d. paramnesie. Questo perché l’elemento della certezza, spingerebbe inevitabilmente il dejà vu nell’ambito delle patologie. Solo gli psicotici, infatti, sono irrefutabilmente convinti della verità delle loro allucinazioni.

Il fatto è che il dejà vu pone un problema talmente spinoso da affrontare che, alla fine, l’unica soluzione possibile è semplicemente quella di negarne l’esistenza. E, infatti, la questione è risolta dalla ricerca ufficiale in modo assai sbrigativo: il dejà vu è un’anomalia della memoria. L’individuo avrebbe l’impressione di “richiamare alla memoria” un evento mai accaduto e, perciò, falso. E la falsità di tal evento starebbe tutta nel fatto che il soggetto non riesce a riferire alcunché sul quando, sul come e sul dove l’esperienza si sia verificata.

Ecco, questo sembra un grande errore logico perché, se il ricordo non esiste, tirare in ballo la memoria, appare improprio. Se l’individuo “ha l’impressione” di “richiamare alla memoria” un evento mai accaduto, che senso ha parlare di anomalia della memoria? Come si può parlare di alterazione del recupero dei ricordi se non esiste alcun ricordo da alterare? È evidente che l’anomalia, se esiste, sta da un’altra parte.

Diciamo, piuttosto, che questa sembra un’autentica forzatura interpretativa e che, come tutte le forzature, con ogni probabilità è determinata dalla paura.

In realtà, quello appena descritto è ciò che chiamo, in omaggio a Guglielmo di Ockham, un comportamento occamico. All’incirca sei secoli fa, Ockham enunciò un principio metodologico, conosciuto come Novacula Occami (Raosio di Occam), in base al quale nella spiegazione dei fenomeni moltiplicare inutilmente la complessità è un errore. In altre parole, quando un problema presenta più soluzioni possibili, la soluzione più semplice è quella che ha maggiori probabilità d’essere vera.

Ora, definisco comportamento occamico quello di chi tende a usare questa fondamentale direttiva metodologica in modo improprio e fuorviante o, addirittura e come in questo caso, introducendo forzature ermeneutiche, peraltro, evidenti.

Come accennato, tutto questo avviene per semplice paura. L’individuo, spaventato dalle implicazioni logiche che alcune letture del fenomeno potrebbero indurre, invoca inconsciamente il Rasoio ma si spinge troppo oltre, trasformando l’intento razionalizzante in autentica azione censoria e finendo, perciò, in una sorta di riduzionismo compulsivo e, riguardo ai risultati, spesso imbarazzante. In effetti, a ben guardare molti dei c.d. debunkers sono vittime di questa patologia.

Per tornare al punto, quindi, il dejà vu non essendo un ricordo residente, non può involgere in alcun modo la memoria del soggetto la quale interviene nel meccanismo solo in seconda battuta e, verosimilmente, come reazione a qualcosa che è accaduto un attimo prima. In sostanza, il livello mnestico è ingaggiato dal sistema solo in un secondo momento e in modo del tutto strumentale a fronte di qualcosa che non può essere risolto in altro modo.

Il centro intellettuale, infatti, funziona in modo sostanzialmente semplice poiché si basa sulla processione logica degli argomenti vero/falso. In forza di questo schema, ogni evento è indicizzato e, quindi, sistemato su una linea temporale assai rigida, nel senso che sulla timeline gli eventi sono sistemati severamente, uno dopo l’altro.

Ora, immaginate che, per un motivo particolare, un individuo si trovi in una situazione nella quale è costretto a vivere il medesimo evento due volte, contemporaneamente.

In una situazione simile, la reazione della mente non potrà che essere quella di prendere uno dei due eventi, trasformandolo al volo nel ricordo dell’altro che, invece, sta avvenendo in quest’istante.

Ecco, questo è precisamente un dejà vu. Ossia, un trucco che la mente logica adotta per risolvere il paradosso di stare vivendo lo stesso evento due volte e nel medesimo istante. Il ricordo che si sta vivendo, in realtà, non è tale e questo perché non c’è niente di simile nella memoria del soggetto. Di conseguenza, la memoria del soggetto non soffre di alcun malfunzionamento. È solo la mente logica che la sta usando per difendere il soggetto dalla paura che la situazione paradossale porta con sé.

L’unico problema da risolvere, quindi, riguarda l’eziologia del doppio evento, ossia le sue cause. E la soluzione più semplice, Ockham docet, richiede l’introduzione della possibile esistenza di altri Multiversi e, quindi, di altre “terre parallele”, nonché la possibilità che, casualmente, fra tali terre e, perciò, fra alcune delle consapevolezze che le abitano, si stabilisca un contatto di qualche tipo.

Ovviamente, non sappiamo come ciò possa avvenire, tuttavia e in tali casi, le consapevolezze in sync sarebbero coinvolte nel fenomeno descritto. Ossia, due esistenze e per qualche breve istante, si ritroverebbero sovrapposte e, di conseguenza, il brain di entrambe sarebbe coinvolto nel paradosso di essere in atto di vivere due volte e nel medesimo istante la stessa esperienza … DEJA’ VU!

L’ipotesi, quindi è quella di due sistemi (terre) paralleli. Sembra assai improbabile che in entrambi sia presente la stessa sequenza di eventi. Ha molto più senso ipotizzare che, poiché esperimenti diversi, espongano evoluzioni dissimili. Tuttavia, non esiste limite all’ipotetico numero dei Multiversi probabili, così come alla possibilità che fra questi si stabilisca questo contatto. Risultato? Sequenze random di dejà vu.

Proprio mentre sto scrivendo l’articolo, un amico, su FB, mi chiede quel che so del c.d. Mandela Effect. Se ne parla dal 2010 e, a detta di Fiona Broome (creatrice del progetto), un “effetto Mandela” si ha quando qualcuno ha un chiaro ricordo di qualcosa che non è mai successo in questa realtà.

Direi che, quindi e sempre ammesso che la cosa sia reale, l’effetto Mandela potrebbe essere spiegato come un’altra conseguenza, solo un po’ più “spinta”, di quanto illustrato sopra. In tal caso, infatti, il contatto non si limiterebbe a provocare una sovrapposizione di esperienze, ma sarebbe la causa di un vero e proprio scivolamento di uno o più individui dentro una diversa realtà parallela. Questi, quindi e stavolta sì per un meccanismo mnemonico, porterebbero con sé ricordi appartenenti all’altro Multiverso.

Addirittura e a mente dell’elevata frequenza con la quale si verificano i dejà vu nonché, nell’ottica della ricerca di una soluzione alla Danza Folle, della necessità di estendere al massimo l’efficacia di ogni esperimento in atto, questo potrebbe essere un valido modo per ottenere una distribuzione binomiale di proporzioni davvero indescrivibili. Un parziale rimescolamento di carte in corso d’opera il quale, proprio per la randomizzazione che lo caratterizza, sarebbe garanzia d’espansione massima della durata degli esperimenti stessi.

Sotto questo profilo, quindi, dejà vu e Mandela effect costituirebbero le conseguenze visibili di un fenomeno che, al netto di tali manifestazioni, sarebbe del tutto impercettibile e che quasi ciascuno di noi ha sperimentato, forse più volte, nel corso della propria esistenza.

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